L’omicidio di una persona “normale”
Impronta di caffè è il giallo di esordio di Maria Sordino. Un’appassionante storia che si dipana tra le strade di Napoli, accompagnata dall’immancabile odore del caffè. Il romanzo, edito da Il Seme Bianco , si legge tutto di un fiato, è coinvolgente e vero. Vero, perché sentiamo reali i suoi personaggi. Persone normali che non appartengono al mondo della criminalità, gente comune come quella che frequentiamo tutti i giorni. Ed è proprio quando muore ammazzata una di queste persone che l’ispettore D’Arminio va in tilt e si destabilizza. E’ un uomo empatico lui, troppo legato al proprio dovere e al destino crudele di quelle anime per mollare tutto. Una imperterrita emicrania e un profondo senso di malessere si impossessano di lui, per liberarlo solo alla fine delle indagini.
Impronta di caffè è la storia di un omicidio, l’omicidio di Amalia Ferraro, una giovane musicista, bella, istruita e…”normale”. Ad indagare per consegnare il colpevole alla giustizia è l’ispettore Franco D’Arminio con l’aiuto dell’agente Michele Cimmino. Nel corso delle investigazioni l’ispettore si troverà a fare i conti con se stesso e con le sue ferite. Ferite ancora doloranti, che ha sempre ignorato di curare per non affrontarle. Il libro è anche un momento di riflessione che ci ricorda la necessità, difronte ad un cambiamento, di passare in rassegna la nostra vita e fissare le giuste priorità.
Impronta di caffè, Intervista a Maria Sordino
Abbiamo avuto il piacere di fare due chiacchiere con l’autrice del libro e ci siamo fatti raccontare qualcosa in più sul suo romanzo:
Nel libro l’ispettore Franco D’Arminio affronta con diversi personaggi molti temi importanti. Tra questi ricordiamo l’amore, la malattia, il divario generazionale, la solitudine, la condizione degli anziani abbandonati e, ovviamente, la morte. C’è un personaggio che più degli altri esprime il suo punto di vista su uno o più di questi temi?
”Impronta di caffè” è il mio primo libro. Pur essendo da sempre una lettrice seriale, questa è stata la prima volta in cui mi sono trovata dall’altra parte della barricata, per usare un eufemismo e ho sperimentato l’esperienza della scrittura. Scrittura seria intendo perché, per quanto finora mi sia dilettata a scrivere racconti, concentrarsi su un libro è tutta un’altra storia. È stato entusiasmante. Come attraversare una porta per entrare in un universo parallelo e lasciarsi rapire da sensazioni, pensieri, emozioni e vivere mille vite tutte insieme. In quest’ottica, se ci pensa, è difficile non credere che ognuno dei personaggi abbia assorbito un po’ di me, del mio vissuto. È anche vero però che i personaggi di un libro alla fine sono un po’ come i figli: per quanto si possa cercare di educarli in un certo modo e di indirizzarli, succede che alla fine fanno le loro scelte in autonomia. Insomma, fanno un po’ quello che vogliono.
Così, per quanto li avessi immaginati tutti in un certo modo e con determinati tratti del carattere, alla fine era la storia a plasmarli e a delinearne la personalità. Come se avessero preso vita durante la stesura del romanzo e forzare la mano in una direzione o in un’altra avrebbe potuto comportare il rischio di snaturarli, di perderli, di renderli meno credibili. Certo qualcuno l’ho sentito più vicino di altri. Per esempio Giulia, amica di D’Arminio, una figura lieve, delicata, apparentemente secondaria, che accompagna il dipanarsi della storia quasi in punta di piedi, ma cruciale per comprendere alcuni passaggi anche molto umani e delicati del rapporto tra Franco e la figlia. La amo particolarmente perché è una figura femminile forte, provata dalla vita e dall’esperienza di malattia e per questo resiliente. Credo che la resilienza sia un dono ed è speciale chi ha la fortuna di possederlo.
Nel suo romanzo c’è un momento in cui l’ispettore Franco D’Arminio si abbandona ad alcune considerazioni sulla nuova generazione. Considera quest’ultima superficiale e appiattita da una visione distorta dei rapporti che si instaurano tra le persone. Questa visione quanto condiziona la vita lavorativa e affettiva dell’ispettore?
Franco D’Arminio è un ispettore di Polizia sui generis, è molto umano, si lascia facilmente coinvolgere, tanto che, ogni volta che viene scoperto un nuovo morto ammazzato lui sta male, gli viene l’emicrania, ma dal senso del dovere non riesce a guarire. E questo coinvolgimento, la passione che mette in tutto quello che fa, i suoi valori, il senso di giustizia lo rendono un personaggio fuori dal tempo, quasi fuori contesto, rendendo ancor più profondo il divario con Michele, il giovane agente che lo assiste durante le indagini, e con la figlia Carla. Con loro ho provato a fotografare il salto generazionale che, se da sempre caratterizza la distanza tra padri e figli, ritengo sia stato accelerato in modo esponenziale dall’avvento dei social. Certo ho voluto descrivere il punto di vista di Franco, cioè di un uomo che l’avvento di Facebook, di Instagram e giù di lì, l’ha subito. Questo non significa che penso che i giovani non sappiano apprezzare l’amicizia nel senso più profondo del termine o non siano in grado di costruire rapporti veri, che vanno oltre i like e l’amicizia virtuale.
I personaggi più importanti del suo romanzo si abbandonano a ricordi legati all’infanzia, quasi sempre felice. Perché ha sentito il bisogno di raccontare questa parte della loro vita? Può essere secondo lei un modo per dare maggiore credibilità ai personaggi?
Come nella vita reale, anche con i personaggi di una storia di fantasia l’identità, l’unicità di ciascuno ha radici nella propria storia. Raccontare dei ricordi consente di acquisire una visione prospettica di ognuno di loro che, avendo un vissuto, alla fine, come giustamente dice anche lei, diventa più credibile.
L’ispettore Franco D’Arminio e il Commissariato San Paolo avranno un seguito? Che progetti ha per il futuro? Ha pensato ad un sequel?
Penso proprio di sì. All’inizio mi ero ripromessa di aspettare, per darmi il tempo di capire se ero stata capace di costruire un personaggio credibile e soprattutto in grado di conquistare i lettori. Da più parti ho ricevuto l’incoraggiamento a pensare a un sequel. Si vede che ho molti amici che mi vogliono bene… Beh, comunque la cosa mi ha reso particolarmente felice, e quindi sì, ci sto pensando. Anche perché, lo sa?…scrivere può dare dipendenza!