In questo volume di Alfonsina Caterino, Il tempo non disperde (Edizioni Frequenze Poetiche, 2021, pp. 80), non troverete lo stereotipo, la norma, la pace dei sensi, un linguaggio semplice, ma il dolore, la sofferenza, l’inquietudine, gli amori perduti e quelli che si ritrovano, tutti sentimenti che ritroviamo nella vita di tutti i giorni e che non possiamo ignorare magari con un linguaggio facile o con delle tematiche pacificate. È un dolore cosmico questo che assale Alfonsina in un tempo che non disperde la speranza di ritrovare un amore perduto, l’amore per la vita in generale, dove dentro c’è tutto ciò che si ama e per cui viviamo.
Di solito di fronte al tempo che passa inesorabile e quindi dispersivo, ci facciamo prendere dallo scoramento, dalla depressione, ma non in questo caso, in quanto qui si tenta di superare le negatività con la poesia, con un linguaggio che si dilata in tutte le sue pieghe per sperimentare altri piani mentali da abitare e magari da rovesciare ancora, per una meta che mai si raggiunge e che mai si vuole raggiungere per non cadere nell’ovvio e nell’oblio.
La realtà che ci racconta Alfonsina non è una realtà diversa da quella che viviamo tutti i giorni: è una realtà fatta di significanti che intuiscono e percepiscono, rompono e irrompono, finiscono e iniziano, disperdono e costruiscono un’esistenza al limite della fantasmagoria, spesso allegorica, in cui neanche il tempo che passa inesorabile disperde l’amore, la speranza, la gioia di vivere, in quanto è di questi sentimenti che siamo fatti e non possono essere dispersi dal tempo che passa, nonostante tutto il male che ci circonda. «Il tempo non disperde dunque ‒ ci dice l’autrice di questo volume ‒, perché secondo il mio percepire poetico, la misura d’ogni cosa sono i sensori di cui siamo realizzati! Il bene, il male, l’odio, l’amore il sogno, l’incanto, tutto si conchiude nei nostri pori che una maschera fissata in faccia dalla nascita, non fa trapelare e affida all’infinità la voglia di esserci, di non esserci… Il divenire avviene in noi che non disperdiamo mentre perduriamo nel mistero eterno».
In sintesi, il tempo si basa sui nostri sentimenti che sono infiniti, e di conseguenza anche il tempo lo è. E di questi sentimenti in finiti, il bene, il male, l’odio, l’amore il sogno, l’incanto, di cui sopra, Alfonsina li abita tutti in questo libro, dilatandoli verso un vuoto/pieno di una realtà dove s’incontra l’amore, la sofferenza il dolore, gli affetti perduti. La parola sostanzia in tutti i colori della vita, formando circuiti e cortocircuiti, dipingendo fin dentro il suo corpo liberando smaliziate molecole inconfessabili: un accumulo di parole che dialogano con l’irrequietezza dove esplodono come tessere di un puzzle intriso – nonostante tutto – dal vizio di vivere, indagando i respiri, in «… un silenzio che / rimbalza sciabole / trafuga lampi viatici / alla ribellione…» (p. 19):
… Nulla muta il corso inverso
la solitudine ricicla veglie
sono campi di marzo le domande
archi tra finestre giocano alla
roulotterussa; lapidano il destino
‒ Il grigio dell’impronta è cera e
discioglie; talora si crede zattera in cammino
incendia canne al vento, ne impicca i rantoli
bruciano in gola brandendo festa un falsetto
da espiare colpa al tempo, senza ragione
Tizzoni, gli alfieri matti ho affrontato arpe,
solfeggio allucinato ho acceso a pelo d’acqua il
vezzo d’immolare Isacco
‒ L’afflizione ha seccato il latte
denudato il pianto; la marcia accecata, avvolta
nei segreti, ha lievitato radar, l’abbandono
‒ Gli astri affiorati sono polvere di limo
urtica i baci, appanna le seduzioni corrompe la
noia senza vendicare lo sputo caduto in faccia
‒ Platee nomadi appaiono e scompaiono
adornano l’infelicità a sprezzo dei rimedi
frusciati postumi, ora sventagliano timoni
tra le mani sporche
disfano acqua fuoco aria
ne impastano zolle al concime
Nulla trattiene strappi e senno (p. 21).
Attraverso personaggi biblici (Gesù, Isacco, Lazzaro), mitologici (Ade, Medea, Persephone), moderni (Beethoven, Jurì Orten, Van Gogh, Artaud), tutti con un vissuto tragico e doloroso, l’autrice ci delinea un dolore e una solitudine che sono un dolore e una solitudine di ricordi laceranti che diventano cosmici. Ma in questo viaggio odisseano sul mare dei sentimenti e delle ferite esistenziali, che il tempo non disperde, dove ha visto l’inferno farsi giogo per tutta la vita, le fanno compagnia la vera identità delle parole che abbina sotto filigrane che filtrano le ferite nel tempo sottratto alle illusioni. E alla fine il tempo, che non è altro che una proiezione di ciò che siamo, di ciò che viviamo, accumulo dopo accumulo dove si è comunque in attesa di un qualcosa che ti faccia considerare la vita come un bene (magari l’attesa di un figlio, «… egli è qui dipinto / mi manca / pulsa dentro / il respiro ha accecato i pali negli occhi / la luce ha assorbito tutte le maree / il sale ha impallidito la luna // nel desiderio che consuma / ‒ Per vederlo salirò sull’albero più alto, in modo / che, Quando Passa, io così piccola, possa essere / da Lui vista, riconosciuta nella schermata aperta / che dipingerà carminio la lama affondata…», p. 71), diventa persino un amico, non un tiranno, in quanto è un tempo dell’anima, dell’inconscio che non ha fine, che si dilata in più direzioni alla ricerca del senso vero della vita.
Insomma, questo volume di Caterino (il terzo, dopo Come una farfalla, Ed. Il Filo, 2007; Nel tempo della guardia, Ed. Società Dante Alighieri, 2011) è un volume che ti travolge (e non lo dico perché mi ha coinvolto in prima persona sia come curatore della collana in cui è inserito sia come curatore del volume stesso) in una spirale di combinazioni e atmosfere linguistiche, un tuffo in apnea tra significati e significanti che si dilatano nell’inesorabile fluire del tempo che tutto travolge e annulla, come riporta un passo sulla copertina del suo primo volume.