A cominciare da Marco Anneo Lucano, poeta dell’antica Roma nato a Cordova, il numero di poeti italiani che in vita hanno deciso di mettere fine alla loro esistenza ricorrendo al suicidio, è molto vasto. Ovviamente per questioni di spazio, qui ci limitiamo a proporre alcuni di essi. Quasi tutti sono accomunati da due sentimenti: l’angoscia del vivere e il dolore, in quest’ultimo caso solitamente di un caro estinto. Sul tema del suicidio, sia da un punto di vista risolutivo sia in posizione critica nei confronti di esso, si sono espressi anche autori che non sono ricorsi a questo gesto estremo e definitivo.
Franz Kafka affermava che «Il suicida è un carcerato che, nel cortile della prigione, vede una forca, crede erroneamente che sia destinata a lui, evade nottetempo dalla sua cella, scende giù e s’impicca da sé».
Bisogna amarsi molto per suicidarsi, era il pensiero di Albert Camus, mentre il filosofo Arthur Schopenhauer sosteneva che «Anche l’uomo più sano e più sereno può risolversi per il suicidio, quando l’enormità dei dolori e della sventura che si avanza inevitabile sopraffa il terrore della morte».
Pessimista ma con la consapevolezza di una natura immodificabile, si espresse in versi anche il poeta Edgar Lee Masters: «A che serve / sbarazzarsi del mondo, / quando nessun’anima mai sfugge al destino eterno della vita». Anche Leopardi volle esprimersi sull’atto del suicidio (E in vero, colui che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi e tutto il genere umano), mentre Breton lo definisce come libertà assoluta: «Il più bel regalo della vita è la libertà che ci lascia di andarcene a nostro piacere».
Ci sono stati anche poeti e artisti che hanno preso coscienza di una realtà contraria al modus vivendi di ogni uomo, che ci “ammazza” o ci induce, come entità pensante, al silenzio, il quale per un essere umano è un po’ come morire. Ve lo immaginate l’uomo senza la parola? Oddio, pensandoci bene, potrebbe anche essere una via d’uscita dal pantano quotidiano creato anche dal troppo parlare evanescente e senza costrutto; insomma, tanto per parlare. Comunicare gestualizzando nel silenzio delle parole potrebbe essere la vera rivoluzione che affranchi finalmente l’uomo dall’idiozia distogliendolo dal suicidio cosmico e dalla politica del parolaio.
Ritornando al tema del “suicidio di un poeta”, Cesare Pavese tentò di dare una spiegazione a questo atto estremo in termini quasi filosofici: «La difficoltà di commettere suicidio sta in questo: è un atto di ambizione che si può commettere solo quando si sia superata ogni ambizione». Fabrizio De André, che della voce e delle parole non poteva fare a meno, né della comunicazione, la metteva sul piano del poco attaccamento alla vita, non già fisicamente ma come entità pensante che ha già mandato da tempo alla forca o costretti a suicidarsi i sentimenti del saper vivere, quali amore per sé e per gli altri, valore morale dell’essere ma non bigotto, solidarietà, amicizia, etc.
Ma la fine di un’esistenza a chi giova? Credo a nessuno, anche perché la morte, da qualunque parte la si guardi, fa sempre spavento, come ha lasciato detto il citato Fabrizio De Andrè alla domanda di cosa avesse più paura. «Sicuramente della morte – ci tenne a sottolineare ?. Non tanto la mia che in ogni caso, quando arriverà, se mi darà il tempo di accorgermene, mi farà provare la mia buona dose di paura, quanto la morte che ci sta intorno, lo scarso attaccamento alla vita che noto in molti nostri simili che si ammazzano per dei motivi sicuramente molto più futili di quanto non sia il valore della vita. Io ho paura di quello che non capisco, e questo proprio non mi riesce di capirlo».
Cercando sul web elementi riguardanti i suicidi dei poeti, su una pagina di facebook, giorni addietro mi ha colpito una condivisione riguardante il suicidio di un giovane poeta, Simone Cattaneo (1974-2009). In bella vista, una scritta in grassetto, racchiusa in poche righe, ci dava la triste notizia: «Simone Cattaneo, poeta, morto suicida ad appena trentacinque anni, dopo aver rivoluzionato il polveroso e accademico mondo della poesia nostrana. Peace&Love, la raccolta definitiva delle sue poesie, è la Spoon River di un’umanità degradata e senza possibilità di redenzione, quella di un paese oramai in rovina». In realtà lo scritto in epigrafe, datato tre novembre, e quello che ne consegue, una breve digressione sulle cause del gesto/suicidio, è dello scrittore Matteo Fais, stessa età del Cattaneo, una digressione ragionata che, se non ci trova d’accordo con il gesto di game over della vita, ci fa riflette però sulla valenza del desiderio della morte che negli ultimi tempi ha messo radici nelle società opulenti e capitalistiche.
La domanda che alla fine pone Fais, che prende di mira sempre la morte è la seguente: «Di cosa hanno paura gli uomini e gli artisti? Ovviamente non manca una presentazione del poeta/suicida che annovera il suo nome nel lungo elenco, ahimè, dei cosiddetti “poeti maledetti”, con cui chiude il discorso: «… Lui si chiama Simone Cattaneo, anzi si chiamava, perché purtroppo non c’è più: Simone, un giorno, ha scelto di aprire la finestra e buttarsi di sotto. Prima di allora, però, aveva scritto tre raccolte di poesia (le prime due con le edizioni Atelier: Nome e soprannome nel 2001, Made in Italy nel 2008). Il corpus della sua opera è stato ristampato di recente, nel 2014, dall’editore Il Ponte del Sale, con l’aggiunta dell’ultima raccolta postuma che dà anche il titolo al volume, Peace & Love. Questa coraggiosa edizione è stata tradotta nel 2016 in lingua spagnola». Ma chi fosse Cattaneo, a questo punto del discorso, non aggiunge e non toglie, anche se stiamo parlando di un poeta non del tutto avvezzo ai versi, che faceva parte della redazione della rivista «Atelier» e che aveva pubblicato alcune poesie su varie riviste anche abbastanza note («La Clessidra», «Poesia», «Tratti», «Hebenon», «La Mosca di Milano», «Clandestino», «Letture», e altre) il che lo connota non come l’ultimo poeta arrivato in “casa/poesia” dove più che al “come” di molti suoi “colleghi”, pensava al “cosa” dire, ovviamente con la garantita discesa verso l’oblio.
Ciò che ci sembra importante è lo stravolgimento della realtà in negativo, per colpa di una politica che ha pensato e pensa agli “affari” propri perdendo tempo, per es., dietro una riforma elettorale e una proposta referendaria per cambiare la Costituzione italiana in peggio, che raramente ? come sostiene giustamente Matteo Fais ? la troviamo nelle poesie dei giovani, se si riscontra è abbondantemente dolcificata, dove ? ce lo dice Cattaneo con la sua poesia sociale, quasi pulp, distopica viscerale ma diretta, autoironiche, senza concetti preclusivi ? “le parole non hanno peso / sono solo un compromesso tra pietre e nubi”. E per concludere, ci piace proporre un’altra domanda di Fais: «Dove sono le nostre vite, dov’è il quotidiano, la disoccupazione che appare inarrestabile, i matrimoni distrutti, le vite irrisolte e, ancora, i call center, il cancro, l’HIV, la periferia postindustriale, le puttane per strada, le discariche abusive, e tutto il vortice di orrori e miserie che ci circonda?» Dov’è la loro risoluzione, nei litigi e nelle spartizioni di torte economiche di chi ci comanda?