Ci sono poeti dannati dalle gloriose e a volte illusorie sorti di mercato, e quelli che non ce la fanno più a sopportare gli orrori e le miserie di questo mondo, di un’umanità impazzita che inocula nel loro animo il morbo del “mal di vivere”, che nessun verso, nessuna poesia riesce ad impedire di aprire una finestra e buttarsi di sotto, di portare una pistola alla tempia e spararsi un colpo mortale o allacciarsi una corda al collo e lasciarsi andare nel vuoto: un gesto estremo e ambizioso d’amore per la propria persona, una via d’uscita dal pantano, per un forse troppo attaccamento al valore della vita, anche se il gesto estremo del suicidio ci fa comprendere il contrario? Albert Camus diceva che il «suicida è un carcerato che, nel cortile della prigione, vede una forca, crede erroneamente che sia destinata a lui, evade nottetempo dalla sua cella, scende giù e s’impicca da sé». Ci rendiamo conto che non c’è una spiegazione razionale in siffatto gesto ma una presa di coscienza di una realtà contraria al proprio modus vivendi.
Riprendendo il discorso iniziato su queste pagine con l’articolo Il suicidio del poeta. Una scelta istintiva o ragionata? del 3 dicembre 2016, Cesare Pavese ci dà una spiegazione all’atto estremo del suicidio («La difficoltà di commettere suicidio sta in questo: è un atto di ambizione che si può commettere solo quando si sia superata ogni ambizione»). Ma come si arriva ad un gesto così estremo? Ce lo dice ancora Pavese, «non manca mai a nessuno una buona ragione per uccidersi», anche se Camus ci dice la sua del tutto non trascurabile: «bisogna amarsi molto per suicidarsi […]. L’uomo ha inventato Dio soltanto per non uccidersi». Secondo lo stesso Camus, «giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia». Allora ci si suicida per troppo amore di se stessi? Il suicidio che ha perso la valenza filosofica, in quanto praticamente possibile (e non più immorale, come sostiene il Kant dell’autoconservazione), testimonia la piena libertà dell’uomo, al quale gli è stato privato la libertà della scelta di nascere, di decidere della propria fine. Ed è una scelta ragionata, priva di gesti istintivi.
Ma gli uomini non hanno paura della morte? Secondo il filosofo Massimo Recalcati, coloro «che decidono per il suicidio sono uomini che hanno perduto la loro immagine, che hanno incontrato uno specchio in frantumi, che non possono più riconoscersi in nulla. Sono stati spogliati della loro stessa immagine». Gli uomini forse sì, ma i poeti? Come spiegare il suicida di un poeta?
Sull’argomento, credo sia esplicativo un volume dello psicanalista psichiatra Paul Mathis dell’Ecole Freudienne di Parigi, I percorsi del suicidio (Sugarco Edizioni, 1979), il quale ci porta per mano sulle motivazioni che fanno germogliare il morbo del suicidio particolarmente tra scrittori e artisti. Ed è errato non definire la scrittura come una maschera per nascondere quello che un poeta o uno scrittore ha smarrito tra la trama del desiderio di vivere e l’incognita del reale. E non è affatto protetto dalla sua devastazione psicologica, molto più che nell’uomo comune: «Lo scrittore non è sicuro di arrivare attraverso la scrittura a sciogliersi dalla pulsione di morte. Il suo rapporto con la morte rimane lancinante, oscuro, poco chiaro. In un primo tempo si potrebbe pensare che scrivere significhi proteggersi dalla morte» (P. Mathis).
La maggior parte sono i trascurati dalla storia. Però che la storia li abbia trascurati non credo sia la sola motivazione. Comunque bisogna essere ottimisti per suicidarsi, «gli ottimisti che non possono più esserlo. Gli altri, non avendo alcuna ragione per vivere, perché dovrebbero averne una per morire?». D’altronde, ancora oggi l’argomento è motivo di discussione; lo certifica il dibattito sui poeti suicidi in Calabria, tenutosi il 5 maggio 2017 durante il Festival di Cirò Marina, cui hanno partecipato il poeta Dante Maffia, il filosofo e poeta Gianni Mazzei, il sociologo Charlie Barnao, Francesco Tarantino e il presidente della testata giornalistica «Tessere», Daniele Pugliese, il quale con Teresa Paladini ha letto un brano di Primo Levi, Verso occidente.
La storia è piena di poeti suicidi; spesso la fanno finita con la vita in giovane età, anche se Evtushenko non è d’accordo: «Sappiate che esistono solo omicidi. Al mondo nessuno si è mai suicidato!». Lo vada a dire a Remo Pagnanelli (Macerata 1955 – 1987), Claudia Ruggeri (Lecce, 1967 – 1996), Antonia Pozzi (Milano, 1912 – 1938); Nadia Campana (Cesena, 1954 – 1985). Ovviamente non è solo una questione italiana il suicidio tra i poeti; l’elenco di poeti stranieri suicidi sarebbe lungo, ma ci limitiamo a pochi nomi: Marina Cvetaeva (russa, 1892 – 1941); Sylvia Plath (statunitense, 1932 – 1963); Sergej Esenin (russo, 1895 – 1925); Stefan Zweig (austriaco, 1881 – 1942).
«È difficile che di fronte all’aumentata coscienza, a questa maggiore luce e consapevolezza, le correnti suicidarie che percorrono il tessuto della società odierna, siano “malattia” e “povertà morale”. Tutto sommato ne rappresentano la salute, anche se mortale. Il suicidio è lo stato normale. Il rischio del suicidio è immanente» (Manlio Sgalambro, Ma il suicidio è atto immorale?, in «Il Sole 24 Ore, 14 gennaio 1996) e riguarda tutti.
Il suicidio del poeta non ha particolari motivazioni, in quanto sono le stesse motivazioni dell’uomo suicida comune: miseria, disperazione, follia, male di vivere, solitudine, incomprensione, dolore per la perdita dei propri cari, fallimenti amorosi; forse qualche differenza la fanno la voglia di affrancarsi da status quo e la ricerca dell’autenticità. Ma siamo alle ipotesi, a mezze verità celate dalla caligine del dubbio; però non definiamo il suicidio solo una questione sociale: le motivazioni sono molteplici e complesse; spesso il gesto estremo non è solo una manifestazione psicologia di malessere. Un suicidio è un suicidio da qualunque prospettiva lo analizziamo. Sarà una decisione tesa a decostruire l’io o è dovuto ad un disagio più vasto, ad una difficoltà a ritrovare la propria voce in un pensiero che invecchia precocemente?:
La prima volta successe che avevo dieci anni.
Fu un incidente.
Ma la seconda volta ero decisa
A insistere, a non recedere assolutamente.
Mi dondolavo chiusa
Come conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
E staccarmi via i vermi come perle appiccicose.
Morire
è un’arte, come ogni cosa.
Io lo faccio in un modo eccezionale.
Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho la vocazione…
(Sylvia Plath, Lady Lazarus da Ariel).
«Due studiosi italiani, Preti e Miotto (1999) hanno evidenziato come i poeti e gli scrittori abbiano più alte probabilità di morire suicidi rispetto ad altre categorie artistiche. La comparazione delle sei professioni artistiche ha permesso di evidenziare che essere poeta e/o scrittore eleva di molto il rischio di suicidio, specialmente nelle donne (ratio 1,75% uomini, ratio 4,30% donne).
Anche uno studio di Stack (1996, 1997) ha evidenziato che coloro che sono registrati come artisti hanno una probabilità 3 volte maggiore di suicidio rispetto a coloro che svolgono professioni manuali o impiegatizie» (Stefano Totaro, Erminia Colucci, Il suicidio e gli artisti: stereotipi e credenze, in «Rivista di Psicologia Clinica», n. 2, 2012, p. 115).
Ma la poesia non dovrebbe aiutare a vivere meglio?