Lo scorso 22 gennaio la Banca Centrale Europea ha preso la decisione, definita storica, del Quantitive Easing (QE), alla lettera, alleggerimento quantitativo, ossia uno strumento di creazione di moneta da mettere in circolazione. Tale scelta è stata presentata come arma importante per combattere la crisi economica-finanziaria che ormai da otto anni circa stiamo vivendo.
Abbiamo posto delle domande al docente di Economia politica delle Federico II Carlo Panico. «L’uso della politica monetaria (della quale fa parte il QE, ndr), per stimolare la crescita in periodi di recessione – dice il prof – è improprio». Gli altri interventi non possono arrivare dai singoli Stati ma proprio da Bruxelles, dove invece domina un’altra idea.
Professore, innanzitutto, cos’è, in termini elementari, il QE?
É un programma d’immissione di liquidità nel sistema economico da parte della banca centrale europea. Ha come obiettivo stimolare l’andamento del PIL dell’economia in un periodo di forte recessione. É un intervento che non rientra tra quelli che la politica monetaria normalmente realizza ma tra gli interventi chiamati “non convenzionali”. Federal Reserve (Fed) statunitense l’ha usato per far fronte alla crisi finanziaria acquistando obbligazioni ed ora lo sta disattivando. Il programma in Europa prevede acquisti mensili per 60 miliardi di euro fino a settembre 2016. L’ammontare massimo degli acquisti sarà quindi uguale a 1200 miliardi di euro. L’obiettivo è proteggere il settore bancario dalle turbolenze speculative dei mercati obbligazionari e incoraggiare lo stesso ad aumentare i prestiti alle famiglie e alle imprese al fine di stimolare la crescita economica. Questo è uno strumento di politica monetaria ma in periodi di recessione, danneggiata dalle scelte di austerity, bisogna intervenire principalmente su politiche fiscali espansive, che aumentano direttamente la domanda di beni. Le politiche monetarie espansive possono aumentare la spesa, e quindi la domanda di beni, ma spesso questo non accade, specie in periodi di recessione.
Già negli ultimi anni la BCE ha usato interventi “non convenzionali” che sono serviti a evitare che la banche soffrissero ulteriormente le conseguenze della crisi, ma che non sono serviti a rilanciare la crescita.
Si dice che porterà liquidità nelle banche che saranno più disponibili e fare prestito a famiglie e imprese con conseguente aumento dei consumi, ma basterà questo per uscire dalla crisi?
La BCE, come le banche centrali di tutto il mondo, ha inondato le banche di liquidità dal fallimento della Lehman Brothers nel settembre 2008. Questi interventi hanno consentito al sistema bancario e all’economia di non trovarsi in condizioni ancora più gravi. Le banche centrali hanno giocato il tradizionale ruolo di “prestatrici di ultima istanza” a favore delle banche, e hanno fatto bene. Purtroppo, in periodi di crisi e recessione la politica monetaria non può fare di più. Come insegna la teoria economica, l’idea che in tali periodi la politica monetaria possa da sola stimolare la crescita economica è errata. Le politiche fiscali espansive possono mettere in moto un meccanismo virtuoso che fa aumentare permanentemente il PIL. In tal modo diviene possibile controllare il rapporto debito pubblico – PIL, perché il denominatore di tale rapporto cresce e tende a sopravanzare l’aumento del debito per gli effetti moltiplicativi che la spesa pubblica ha sul prodotto. Nell’area dell’euro la necessità di introdurre politiche fiscali espansive, diametralmente opposte a quelle di austerità imposte irragionevolmente dalle autorità europee, è ancora più importante. In conclusione, la politica monetaria non è lo strumento da usare per rilanciare la crescita e uscire dalla crisi. Le politiche fiscali possono, invece, svolgere efficacemente questa funzione.
Molti osservatori dicono che il QE non è una panacea e che comunque ogni singolo stato deve fare qualcosa. Cosa?
Il QE (o meglio, la politica monetaria) non è la soluzione. Sono quindi necessari altri interventi. Possono i singoli Stati nazionali realizzare unilateralmente politiche fiscali espansive? La risposta è no. Le politiche fiscali espansive possono essere condotte solo dalle autorità europee a livello sovranazionale. Se i governi nazionali le attuassero unilateralmente, si esporrebbero a un altissimo rischio di subire un attacco speculativo. Le autorità europee possono invece realizzare politiche fiscale espansive, coordinate a livello europeo. Per “prescrivere la ricetta” di una politica fiscale espansiva sovranazionale devono essere riformate le norme europee sul coordinamento delle politiche economiche. Tali norme impongono che il bilancio dell’Unione Europea non possa superare l’1% del PIL europeo (quello del Governo Federale degli USA supera normalmente il 30%). Inoltre, prevedono il Patto di Stabilità e Crescita (e ora anche il Fiscal Compact), i quali introducono regole fiscali rigide che impediscono agli Stati nazionali di usare attivamente la politica fiscale.
Di fatto, queste politiche dovevano già essere realizzate prima della crisi, perché dalla sua creazione l’area dell’euro ha persistentemente avuto un importante surplus commerciale, ossia di un eccesso di esportazioni sulle importazioni, e in tali condizioni la teoria economica suggerisce che sia introdotta una politica fiscale espansiva per aumentare la crescita.
Tra le riforme che la letteratura suggerisce c’è quella di istituire un’Agenzia Fiscale Europea che fissi anno per anno il rapporto deficit-PIL che ogni paese deve rispettare. Invece di fissarlo una volta per tutte con una regola fiscale rigida, come quella contenuta nel Patto di Stabilità, che non differenzia tra le diverse condizioni cicliche e strutturali delle economie. Le difficoltà nel realizzarle non sono tecniche ma politiche. Vale a dire, le erronee ideologie che sono state diffuse ampiamente dai mezzi di comunicazione hanno reso difficile trasformare in azione politica quello che le conoscenze tecniche ci dicono di fare.
Si corre il rischio che una maggiore liquidità possa portare all’inflazione, dicono i “falchi”, contrari a questa cura. A proposito di falchi, quali sono le loro ragioni? Perché sono contrari al QE e quali mali credono possa portare oltre all’inflazione?
L’argomento di chi si oppone non è l’inflazione. Oggi, la recessione ha fatto scendere il saggio d’inflazione sotto la soglia del 2%, che la BCE pone come obiettivo. Per gli specialisti della politica monetaria un saggio d’inflazione del 2% equivale all’assenza d’inflazione. Anzi, sotto il 2% si teme la deflazione che è considerata più pericolosa dell’inflazione. Il principale argomento di chi si oppone alle politiche monetarie “non convenzionali” in Europa è legato alla volontà di non ridurre le pressioni sui paesi sotto attacco speculativo affinché continuino ad applicare politiche di bilancio improntate al rigore e all’austerità. Questa volontà è espressa con forza dai mezzi di comunicazione, che hanno convinto gli elettori dei paesi dell’Europa centrale, come la Germania, l’Olanda, ecc., che i meccanismi di funzionamento dell’Unione monetaria europea fanno loro correre il rischio di pagare i costi dell’eccessiva spesa pubblica che i governi dei paesi sotto attacco speculativo realizzano per fini clientelari e per continuare a lucrare redditi illecitamente legati alla corruzione. Si è così andata diffondendo un’ideologia, errata quanto pericolosa, che distingue tra paesi virtuosi e paesi dove prevale l’imbroglio e la corruzione e che porta l’elettorato e i politici dei paesi non soggetti agli attacchi speculativi a chiedere interventi punitivi verso i paesi non affidabili. Il timore che scuote gli elettori dei paesi non soggetti agli attacchi speculativi è che, senza sanzioni e pressioni efficaci per la realizzazione di politiche di rigore in questi paesi, il funzionamento della moneta unica danneggerà i cittadini europei virtuosi, facendo pagare loro i costi degli sprechi altrui. Si tratta di un timore ingiustificato per come funziona il sistema monetario dell’Eurozona, che purtroppo condiziona le scelte politiche. Va poi detto che il prevalere dell’ideologia appena descritta sembra non dispiacere alle classi dirigenti e imprenditoriali dei paesi non soggetti ad attacchi speculativi.
Se questa soluzione può fare uscire l’eurozona dalla crisi, i tedeschi che osteggiano questa decisione di Draghi, non ci guadagnerebbero comunque come tutti?
I tedeschi e gli altri paesi che si oppongono alle politiche monetarie non convenzionali e alle politiche fiscali espansive sicuramente ci guadagnerebbero. L’economia della zona euro è molto integrata, come mostrano da tempo gli andamenti comuni dei cicli economici. Si tratta di una sola economia e questo è uno dei motivi per i quali ci siamo mossi verso l’introduzione della moneta unica. Un altro motivo importante è stato l’aumento dell’instabilità finanziaria internazionale e la necessità di difendere da essa le economie e i cittadini europei.
Si dice che gli USA sono usciti dalla crisi proprio perché la FED di Bernanke, il capo della banca centrare USA, iniettò liquidità nel sistema comprando i debiti degli Stati, davvero gli americani stanno tanto meglio degli europei?
A differenza dell’Unione Monetaria Europea, gli Stati Uniti rappresentano un’entità politica che ha forme di coordinamento delle politiche di tipo tradizionale, le quali non impediscono di usare, secondo le necessità, tutti gli strumenti a disposizione delle autorità per risolvere i problemi economici. Le amministrazioni statunitensi usano normalmente le politiche monetarie e quelle fiscali per raggiungere gli obiettivi economici desiderati.
Negli Usa da qualche anno è nata una nuova scuola di pensiero economico, la MMT, Modern Monetary Theory secondo la quale l’intervento pubblico e il debito hanno un ruolo benefico nell’economia. In questi anni in Europa si discute tra i falchi del’austerity, che hanno la Germania di Merkel in testa, e le colombe dell’intervento pubblico che si ispirano a questa teoria. Chi ha ragione, quale soluzione ci potrebbe portare fuori dalla crisi?
Le posizioni che questi autori sostengono esistono da sempre e sono state dominanti dopo la seconda guerra mondiale con risultati eccellenti in termini di crescita ed equità distributiva per le economie e i cittadini.
Direi piuttosto che negli ultimi anni, per facilitare processi di riforme economiche e sociali (le cosiddette “liberalizzazioni”) che hanno fatto aumentare a dismisura le disuguaglianze distributive, le posizioni che ripongono fiducia (ma si dovrebbe dire “fede”) nella capacità delle forze di mercato di generare efficienza, pieno impiego, stabilità, crescita ed equità distributiva sono state favorite. Diversamente da quanto si cerca di fare credere al grande pubblico, queste posizioni non hanno solidi fondamenti scientifici. Inoltre, anche gli studi empirici mostrano che i risultati che riescono a ottenere sono opposti a quelli promessi. Per questo motivo, si deve usare la parola “fede”, piuttosto che “fiducia”.
Chi si dedica seriamente agli studi di economia sa che oggi c’è una forte scissione tra quello che le conoscenze scientifiche propongono e quello che ci viene presentato dai mezzi di comunicazione. Oggi, la cosiddetta “retorica della politica economica” non ha nulla a che vedere con le conoscenze scientifiche disponibili. Purtroppo, questo iato non è casuale. Solo con queste mistificazioni si potevano conseguire in tempi relativamente brevi (poco più di trenta anni) risultati tanto drammatici in termini di giustizia distributiva. Ma qui si aprono altri scenari e discussioni, appassionanti quanto lunghe e complesse.