Le vicende che hanno visto protagonista la Grecia nelgli ultimi mesi: dal Referendum che ha visto il “No” uscire vittorioso alle dimissioni di Yanis Varoufakis, ed all’accettazione dell’offerta di accordo dell’Ue da parte di Alex Tsipras, fino alle ultime dimissioni del Premier hanno riportato in auge parole quali “Neoliberismo” o anche “austerità” che sono state usate spesso in modo ‘liberamente tratto’.
Quale il significato di questi concetti? Partiamo dalla seconda guerra mondiale che portò con sé un’ondata di distruzione e povertà. Milioni di morti e paesi interamente devastati, ed aprì il periodo della «Guerra fredda» che mutò radicalmente gli equilibri politici internazionali tra le potenze e obbligò i paesi europei a schierarsi attorno ad uno dei due blocchi contrapposti. L’Europa occidentale decise di conformarsi al modello statunitense.
Il periodo successivo alla seconda guerra mondiale fu quindi segnato dalla ricerca di un nuovo ordine al fine di poter dare al sistema internazionale la stabilità che era mancata precedentemente e che aveva condotto alla guerra. Si aprì così una fase di ricostruzione economica e sociale ed un proliferare di organizzazioni ed organismi internazionali: nel 1945 fu fondata l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite), nel 1949 vide la luce il Consiglio d’Europa, e nel 1958 la CE (Comunità Europea) che con il tempo si sarebbe trasformata nell’attuale Unione Europea. La creazione di tali organizzazioni internazionali aveva lo scopo di evitare futuri scontri fra gli stati che attivassero un terzo conflitto mondiale.
Si pensò, quindi, di avviare una politica fondata sulla collaborazione e sulla solidarietà internazionale. In quest’ottica nel 1944 furono firmati gli importanti accordi di Bretton Woods tramite i quali si cercò di dare vita ad un nuovo ordine monetario. Fu quindi concordato un regime di cambi fissi fra le monete in cui il dollaro fungeva da valuta principale in base alla sua convertibilità in oro (di cui gli Stati Uniti possedevano un terzo delle riserve mondiali) a un prezzo prefissato.
Gli accordi stabilirono inoltre la creazione della Banca Mondiale (inizialmente “Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo”) e del FMI (Fondo Monetario Internazionale). Quest’ultimo organismo, che riprendeva in un certo qual modo le funzioni della Banca d’Inghilterra, aveva lo scopo di promuovere la stabilità dell’economia internazionale e di facilitare l’espansione del commercio internazionale. A tal fine c’era bisogno della disponibilità del FMI di consentire una stabilità di tassi di cambio fissi e rendere disponibili risorse, e quindi prestiti, agli stati membri che ne avessero avuto bisogno, per affrontare, in tal modo, una correzione “ordinata” dei problemi della bilancia dei pagamenti.
Nel 1947 fu poi firmato il GATT (General Agreement on Trade and Tariffs) un accordo volto alla progressiva riduzione delle tariffe doganali e dei limiti alle importazioni con l’evidente scopo di mettere fine all’economia protezionistica affermatasi dopo la crisi del 1929 e di favorire, quindi, la liberalizzazione del commercio mondiale. Se da un lato però viene promossa la liberalizzazione del commercio dall’altro vi furono rigide restrizioni alla libera circolazione di capitali.
Oltre che sugli accordi di Bretton Woods, la ricerca di un nuovo ordine poggiava su un secondo pilastro: il cosiddetto “compromesso socialdemocratico”, un compromesso tra capitale e lavoro in modo da poter evitare un conflitto sociale o un esito rivoluzionario della classe operaia. La disoccupazione era infatti considerata un fenomeno politicamente e socialmente esplosivo, come in effetti si era dimostrato nei precedenti anni di depressione economica. Tale compromesso si materializzò in un nuovo tipo di organizzazione economico-politica che è oggi conosciuta come embedded liberalism, caratterizzato dall’attuazione del paradigma fordista-keynesiano.
Gli obiettivi di politica economica degli stati nel periodo post-seconda guerra mondiale apparivano essere comuni: crescita economica, piena occupazione, interventismo statale, e libera circolazione delle merci.
Le politiche economiche “keynesiane” erano caratterizzate da politiche monetaria e fiscale espansive. Vi era una ridistribuzione del reddito al fine di sostenere la domanda; si assicurava così un più alto consumo in modo da far ripartire l’economia. In questo piano erano incluse anche manovre per stampare più moneta, anche a costo di aumentare l’inflazione. La crescita di produzione, produttività, impiego e redditi garantiva la stabilità sociale in quanto ai lavoratori era concesso di condividere i benefici degli aumenti di produttività.
Le politiche di inclusione sociale erano inoltre caratterizzate da una progressiva espansione dei diritti civili, dal riconoscimento dei diritti di cittadinanza della classe lavoratrice e da politiche di welfare state finanziato tramite tassazione progressiva.
Contemporaneamente all’attuazione del sistema produttivo fordista, in cui la forma di produzione era basata sulla catena di montaggio in modo da incrementare la produttività, nacque la produzione “standardizzata” e di massa. Ciò comportava una maggiore accessibilità ai prodotti grazie all’abbassamento dei costi ed all’aumento dei salari. Anche i lavoratori potevano quindi permettersi, di acquistare i beni che producevano, dando vita ad un nuovo fenomeno: quello del “consumo di massa”. Tale modo di produzione divenne quindi anch’esso uno strumento di integrazione sociale.
Il fordismo, in realtà, nacque agli inizi del XX secolo e deve il nome al suo inventore Henry Ford che lo applicò all’industria automobilistica; ma a partire dal secondo dopoguerra tale modello fu esteso ad una vasta gamma di nuovi tipi di produzione: dall’edilizia alla ristorazione.
Il periodo compreso fra il 1945 ed il 1973 fu quindi caratterizzato da alti tassi di crescita economica soprattutto nei paesi a capitalismo avanzato, che rappresentavano i tre quarti della produzione mondiale, tanto che tale periodo è stato definito da Eric Hobsbawn Età dell’oro, anche se in realtà, ci tiene a precisare lo storico, «l’oro luccicò di più sullo sfondo opaco e scuro dei successivi decenni di crisi».
Gli USA, che nel periodo del secondo conflitto mondiale non avevano subito gravi danni, non fecero altro che continuare quell’espansione economica già iniziata tempo addietro. I risultati furono molto più impressionanti in Europa, la quale dovette risollevarsi da una guerra che l’aveva messa in ginocchio; tuttavia bisognò aspettare gli anni sessanta affinché gli straordinari risultati divenissero tangibili. Nonostante l’età dell’oro sia stato un fenomeno che ha caratterizzato prettamente i paesi industrializzati, anche i “paesi del Terzo Mondo” trassero alcuni benefici, poiché videro le loro popolazioni crescere ad un ritmo spettacolare senza precedenti e l’aspettativa di vita allungarsi considerevolmente. Era evidente quindi che il mondo industriale stava pian piano espandendosi dovunque.
Una delle principali caratteristiche di tale crescita economica fu il fatto che essa sembrò ampiamente alimentata dalla rivoluzione tecnologica che in quegli anni raggiunse il suo apice. L’economia mondiale cominciò dunque a crescere ad un ritmo vertiginoso.
I tassi di disoccupazione calarono in maniera impressionante: in Europa il tasso medio di disoccupazione era dell’1,5 % e in Giappone del 1,3 %. Aumentarono gli scambi fra i vari paesi, soprattutto di prodotti industriali, e ciò diede vita ad una sorta di “internazionalizzazione” dell’economia.
I miracoli economici dell’”età dell’oro” correvano al fianco di un altro tipo di cambiamento: la maggior parte degli stati si affidò a governi democratici, soprattutto a causa della paura innescata dalle dittature precedenti alla seconda guerra mondiale. Tali democrazie riuscirono a gestire in maniera ottimale la crescita economica di tale periodo soprattutto grazie al “compromesso sociale” che garantì stabilità politica ai vari governi e che indebolì inoltre le frange estremiste all’interno dei vari stati.
Nonostante, comunque, la “relativa” crescita degli USA, questi ultimi avevano comunque in mano le chiavi della supremazia internazionale grazie al controllo sulle strutture di comando del capitalismo: il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale erano infatti subordinati alla politica statunitense. Tale egemonia statunitense era dettata dalla sua superiorità in campo economico, dalla sua capacità produttiva superiore a qualunque altro paese, sia in termini di capitale che di tecnologia, dal suo ruolo di “antagonista” all’URSS, e dalla grossa quantità di riserve auree. E fu proprio quando gli USA non riuscirono più a garantire la stabilità del sistema, che quest’ultimo collassò.
Gli USA si erano addentrati qualche anno prima nella palude vietnamita, e non riuscivano più ad uscirne (almeno non vittoriosamente): le spese di guerra cominciarono a gravare seriamente sulle finanze USA e il dollaro prese a svalutarsi. Contemporaneamente cominciava ad emergere un’economia di tipo “transnazionale” per la quale gli stati non costituivano più la struttura fondamentale. Ciò comportò che un’enorme quantità di dollari americani si trovassero in circolazione nel mondo al di fuori del controllo degli Stati Uniti.
Nel 1971, quando gli Stati Uniti non riuscirono più ad assicurare la convertibilità del dollaro in oro, il sistema di Bretton Woods andò in crisi e fu così abbandonato il sistema di cambi fissi in favore della libera fluttuazione dei cambi.
In parecchi paesi cominciarono ad essere evidenti segni di rallentamenti della produttività e di diminuzione della manodopera.
Il 1973 fu segnato dalla guerra del Kippur ed dal conseguente rincaro dei prezzi petroliferi da parte dell’Opec attivato per “punire” gli Occidentali rimasti legati ad Israele durante la guerra ma, in realtà, anche a causa della chiusura del canale di Suez che rendeva più ostico il raggiungimento delle fonti di approvvigionamento. La crisi petrolifera finì per mettere in difficoltà i paesi industrializzati, quasi tutti dipendenti, per il loro fabbisogno energetico, dal petrolio. Il mondo si trovò di fronte ad un nuovo tipo di fenomeno: la stagflazione, ovvero un aumento generale dei prezzi accompagnato alla mancanza di crescita economica.
Sul fronte del lavoro la classe operaia, che negli anni sessanta aveva accresciuto la propria «coscienza di classe», aveva notevolmente migliorato le sue condizioni politiche, economiche e sociali. Il compromesso sociale cominciò a presentare dunque un alto costo nel suo obiettivo di mantenere il pieno impiego e salari alti, le cui ricorrenti crisi fiscali dello stato negli anni ’70 non aiutarono certo a mantenere. In molti stati la spesa pubblica sfuggì al controllo delle autorità e provocò un forte aggravamento della pressione fiscale e crescente inflazione.
Ben presto la produzione industriale sia nelle economie di mercato dei paesi sviluppati che nei paesi del Terzo Mondo cominciò a crollare vertiginosamente. L’unico indice positivo iniziò ad essere quello della disoccupazione, soprattutto in Europa; e sempre più visibili erano le disparità dei redditi fra le popolazioni all’interno degli stati. Le operazioni del capitalismo erano diventate, dunque, incontrollabili.
Divenne chiaro che l’età dell’oro era giunta alla sua fine: i decenni dopo il 1973 furono costantemente caratterizzati da una situazione di crisi economica e come scrivono Michael Hardt e Antonio Negri nel loro saggio Impero: «il declino dell’efficacia dei dispositivi di Bretton Woods e la decomposizione del sistema monetario fordista nei paesi più ricchi misero in chiaro che la ricostruzione di un sistema internazionale del capitale avrebbe richiesto una ristrutturazione completa delle relazioni economiche e un cambio di paradigma nella definizione del comando mondiale». Dalle ceneri del sistema keynesiano nacque così la risposta della contro-rivoluzione neoliberista.
Lo scontro tra keynesiani e neoliberisti caratterizzò i primi anni di crisi. I neoliberisti sostenevano che politiche economiche e sociali dell’età dell’oro non consentivano il controllo dell’inflazione né la riduzione dei costi sia a livello di spesa pubblica sia a livello di impresa privata e in tal modo non permettevano la crescita dei profitti, vero motore della crescita economica in un sistema capitalistico.
Il neoliberismo secondo David Harvey non è altro che «una teoria di pratiche di politica economica secondo la quale il benessere dell’uomo può essere perseguito al meglio liberando le risorse e le capacità imprenditoriali dell’individuo all’interno di una struttura istituzionale caratterizzata da forti diritti di proprietà privata, liberi mercati e libero scambio». Per quanto riguardava la teoria keynesiana il ruolo chiave all’interno della struttura economica era quello dello stato, mentre al contrario la teoria neoliberista sosteneva l’assenza o l’ ”intervento minimo” dello stato.
Il neoliberismo risulterà essere il paradigma dominante nelle politiche economiche della maggior parte dei paesi a partire dagli anni ’70. L’espansione geografica di tale paradigma non fu in alcun modo uniforme, e l’applicazione delle sue regole variò da stato a stato.
L’ideologia neoliberista si fondava sulla valorizzazione di due principi fondamentali: quello della dignità umana e quello della libertà individuale. Tali valori, secondo i neoliberisti, dovevano essere preservati da qualsiasi intervento esterno, tra cui, appunto, quello statale.
I centri culturali ove si sviluppò l’ideologia neoliberista furono l’università di Chicago e la scuola austriaca, il cui esponente principale era Friedrich von Hayek, uno dei maggiori avversari delle teorie keynesiane e del compromesso socialdemocratico, nonché grande critico della legittimità dei sistemi di welfare. Egli poneva, al contrario di Keynes, l’accento sulla “libertà individuale” e sulla “razionalità di mercato”, escludendo qualsiasi tipo di intervento statale.
Il liberismo fu inoltre influenzato dalla dottrina del monetarismo teorizzata dall’economista statunitense David Friedman. La dottrina monetarista era critica nel confronti del keynesismo e della sua propensione all’inflazione (ritenuto un fatto “puramente monetario”). Prescrizioni importanti del monetarismo erano quella di mantenere alti i tassi di interesse e quello della positività degli effetti della liberalizzazione dei flussi di capitale.
È possibile trovare le radici ideologiche del pensiero in questione alle teorie liberali del XVIII secolo, tra cui la teoria smithiana della “mano invisibile”; il liberismo di Friedman è infatti anche conosciuto come “liberalismo realistico”. A tal proposito Pier Paolo Portinaro sostiene che «Il liberalismo […] si sta impoverendo nel suo successo. Anche la sua storia sembra oggi venir riscritta alla luce delle fortune che negli ultimi decenni hanno conosciuto le filosofie liberiste e le teoriche dello Stato minimo risalenti alla scuola austriaca dell’economia o alla scuola di Chicago. Autori come Ludwig von Mises, Friedrich August von Hayek, Milton Friedman, Robert Nozick hanno plasmato più di altri l’immagine che del liberalismo oggi correntemente si ha […]».
Von Hayek fondò, nel 1947, la società di “Mont Pélerin”, di cui facevano parte anche Friedman ed il filosofo Karl Popper. Tale società abbracciò i principi della libertà personale e quelli del libero mercato. È evidente, quindi, che venne a crearsi una sorta di “sottobosco” neoliberista che, inizialmente rimasto “dietro le quinte” cominciò a farsi strada all’interno degli apparati statali con discrezione, molto prima degli anni settanta, periodo in cui il mondo assistette alla definitiva consacrazione del neoliberismo nelle pratiche di politica economica. Inizialmente quindi, durante gli anni in cui era dominante il paradigma keynesiano, l’ideologia neoliberista cercò di inserirsi nel “senso comune” tramite strumenti “culturali” penetrando nelle università e tramite il sostegno di think-thanks; il gruppo poté contare su appoggi finanziari e politici soprattutto da parte di miliardari e dirigenti d’azienda statunitensi contrari alle politiche interventiste. Fu dopo la crisi degli anni settanta che il neoliberismo si impose con la forza tramite strumenti quali colpi di stato.
Fu scelto il Cile, nel 1973, come paese cavia per il primo esperimento di politiche neoliberiste. A seguito di un golpe militare, supportato sia finanziariamente che ideologicamente dalla CIA e dal governo statunitense, il generale dell’esercito cileno Augusto Pinochet rovesciò il governo democraticamente eletto di Allende. Il colpo di stato diede vita ad un regime dittatoriale capeggiato dallo stesso Pinochet, il quale represse tutti i movimenti sociali e le varie organizzazioni popolari.
Per formulare la sua politica economica, Pinochet si affidò ad un gruppo di economisti noti come Chicago Boys, che negli anni precedenti si erano organizzati in un gruppo di opposizione ad Allende. Questi si erano formati all’Università di Chicago.
Pinochet, che durante il suo governo fu assistito dai Chicago Boys, negoziò prestiti con l’FMI. In questo modo l’economia cilena fu ristrutturata in base agli stessi principi neoliberisti: furono privatizzati gran parte dei beni pubblici, furono attuati tagli alla spesa pubblica, i sindacati furono fortemente indeboliti e gli investimenti stranieri agevolati. I risultati inizialmente ebbero esito positivo, almeno fino al 1982, quando la crisi del debito latinoamericano portò al crollo del sistema.
Un processo analogo a quello cileno avvenne in Argentina nel 1976: anche qui fu un colpo di stato da parte del generale Rafael Videla a rovesciare il governo democraticamente eletto allora vigente. Successivamente fu attuata una repressione nei confronti della sinistra argentina e fu attuata, anche in questo caso, una politica economica che seguiva principi neoliberisti.
La successiva tappa della diffusione del neoliberismo fu la città di New York tra il 1974 ed il 1975, nel bel mezzo della sua crisi fiscale. New York negli anni sessanta si trovò in un periodo di grave impoverimento che portò alla “crisi urbana”, l’esplosione, cioè, di inquietudini sociali all’interno e fra le parti di popolazione emarginate. Le difficoltà fiscali degli anni settanta aggravarono ancora di più le cose: nel bilancio della città, infatti, crebbe il divario fra introiti e spese. Le istituzioni finanziarie, che inizialmente si erano mostrate favorevoli nel dare una mano alla città, la spinsero poi verso la bancarotta. Furono create nuove istituzioni con il compito di gestire il bilancio cittadino. Tra i risultati si assistette ad un taglio al pubblico impiego e ai servizi sociali ed a un massiccio controllo dei sindacati. La ricchezza si spostò ben presto nelle mani dei banchieri d’investimento (nelle classi alte, quindi) e il tutto a scapito di gran parte della popolazione. Da quel momento in poi le risorse pubbliche furono utilizzate per la creazione di infrastrutture idonee alle iniziative commerciali. Inoltre le imprese cominciarono ad usufruire di sussidi ed incentivi fiscali.
I risultati non furono dei migliori. Nonostante infatti l’immagine limpida che si cercava di dare di New York, la città viveva in realtà nello scontento: l’economia era gestita da un numero sempre minore di persone e cominciò, inoltre, ad aumentare il razzismo fra la popolazione. La crisi fiscale della città mise in chiaro che fra gli interessi delle istituzioni finanziare e quelle dei cittadini, da quel momento in poi sarebbe stata data priorità ai primi. Il ruolo del governo sarebbe stato solo quello di creare un clima favorevole all’attività economica. Evidente fu dunque una svolta verso paradigmi neoliberisti. E con la gestione della crisi fiscale di New York la conversione alle pratiche neoliberiste si estese ben presto in tutto il paese.
David Harvey sostiene che il progetto neoliberista sia in realtà un progetto che abbia mirato sin dall’inizio a «ristabilire le condizioni necessarie per l’accumulazione di capitale e ripristinare il potere delle élite economiche» che si erano viste perdere progressivamente potere, durante l’età dell’oro, a favore di una distribuzione più equa della ricchezza tra la popolazione.
Se fino ad allora il neoliberismo aveva usato la forza per la costruzione del consenso o la via sotterranea del proselitismo culturale, da quel momento in poi cominciò a far uso della democrazia per giungere al potere. Come sottolinea Hobsbawn ciò coincise con una progressiva ascesa di forze politiche conservatrici: «In diversi paesi verso il 1980 salirono al potere governi ideologicamente di destra, impegnati in un programma di laissez-faire che favoriva un estremo egoismo economico» e quindi con la definitiva consacrazione del neoliberismo come paradigma dominante.
In Gran Bretagna fu difficile per la dottrina neoliberista imporre il proprio pensiero a causa della nobile e lunga tradizione nel paese del Partito laburista, che negli anni sessanta aveva deciso di non partecipare alla guerra in Vietnam, e grazie alla sua solida struttura di welfare state. Gli stessi settori economici più importanti del paese erano nazionalizzati. Nonostante ciò però, la corrente di pensiero neoliberista riuscì ad insediarsi all’interno dell’Institute of Economic Affairs. Le blande critiche al welfare state che nacquero dopo la seconda guerra mondiale cominciarono ad essere più rumorose durante il periodo della stagnazione economica e dell’accumulazione di capitale della quale la corrente neoliberista riuscì ad approfittare per insediarsi anche al potere in Gran Bretagna.
All’inizio degli anni ’70 i governi inglesi dovettero affrontare due scioperi dei minatori. Nel momento in cui il governo laburista si trovò in serie difficoltà economiche, dovendo fronteggiare deficit enormi e crisi di bilancia dei pagamenti, decise di chiedere un prestito all’FMI pur sapendo di dover poi sottostare alle sue direttive, che prevedevano politiche fiscali e monetarie di austerità. Il governo laburista non fece altro che provocare una nuova ondata di scioperi. Fu un terreno fertile per Margaret Thatcher, eletta Primo Ministro della Gran Bretagna nel 1979, la quale porterà avanti durante i suoi tre mandati politiche economiche ispirate a von Hayek e Friedman, e il cui slogan principale era il famoso acronimo TINA (“There is no alternative”).
Fin dal suo primo mandato la Thatcher si preoccupò di mantenere alti tassi di interesse per ridurre l’inflazione, provocando in questo modo un tasso di disoccupazione senza precedenti. Le organizzazioni dei lavoratori, indebolite dalla politica repressiva nei proprio confronti, ebbero sempre meno voce in capitolo, e nulla poterono fare a sostegno dei minatori che entrarono in sciopero nel 1984, e che furono costretti a cedere senza condizioni. Il potere dei sindacati fu ulteriormente indebolito nel momento in cui l’industria tradizionale britannica fu devastata dall’apertura del Regno Unito alla competizione straniera e agli investimenti esteri. Da quel momento in poi i salari dei lavoratori inglesi diminuirono vertiginosamente.
La Thatcher, inoltre, si impegnò a ridurre l’intervento statale tramite un gran numero di privatizzazioni. Tra i tanti settori privatizzati vi erano quelli della British Airways, del petrolio, del carbone e delle ferrovie. Altri invece, quali ad esempio la sanità, l’istruzione ed i servizi sociali furono preservati grazie alle limitazioni poste dalla “ storica tradizione” del welfare state britannico.
Sua fu anche la riforma del sistema fiscale denominata “poll tax” calcolata in base alla popolazione. Secondo Harvey la Thatcher «costruì il consenso coltivando una classe media che apprezzava la proprietà della casa d’abitazione, la proprietà privata, l’individualismo e la creazione di opportunità imprenditoriali. Mentre la solidarietà dei lavoratori si dissolveva a causa della pressione cui erano sottoposti» . Contemporaneamente alle riforme della Thatcher, nel 1978, in Cina Deng Xiaoping cominciava la sua opera di ristrutturazione economica del paese traghettandolo verso il neoliberismo.
L’anno successivo Paul Volcker, un economista americano, fu posto alla guida della Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti d’America. In breve diede vita al famoso fenomeno dello “schock Volcker” il quale prevedeva un forte aumento dei tassi di interesse (per tenere a freno l’inflazione): secondo Volcker era l’unico modo per tirare gli USA fuori dalla crisi. Immediata conseguenza fu la rivalutazione del dollaro. Tali manovre si estesero anche in Europa e nel resto del mondo per evitare la fuga di capitale statunitense.
Lo shock Volcker provocò una profonda recessione economica ed un conseguente aumento della disoccupazione. Ma la conseguenza principale fu l’esportazione del neoliberismo nei paesi del terzo mondo a causa della crisi del debito.
Le cause della crisi del debito vanno ricercate negli anni precedenti, quando a seguito dello shock petrolifero, comparvero sulla scena internazionale i “petro-dollari”: denaro proveniente dagli introiti del petrolio che veniva pagato in dollari. Una parte consistente di tale denaro in circolazione, non rimase però all’interno dei paesi produttori, ma fu versato in banche d’affari statunitensi ed europee, le quali si trovarono improvvisamente in possesso di enormi quantità di denaro. Immediata conseguenza fu una maggiore offerta di dollari a bassi tassi di interesse. Per eliminare tale surplus di denaro le banche cominciarono a concedere numerosi prestiti ai paesi del Sud del mondo. Tutto ciò fu possibile grazie alla liberalizzazione del credito internazionale e dei mercati finanziari.
I paesi debitori, tuttavia, in occasione degli aumenti dei tassi di interesse causati dallo shock Volcker, si ritrovarono di fronte ad un aumento del debito e quindi a gravi rischi di inadempienza. Come sostiene Saad-Filho la crisi dei paesi capitalisti ebbe un impatto negativo sulle esportazioni dei paesi della periferia. Il declino dei prezzi delle materie prime e dell’energia contribuì a deteriorare ulteriormente la situazione.
Caso emblematico fu quello del Messico che nel 1982 dichiarò l’insolvenza. L’FMI e la Banca Mondiale decisero quindi di cominciare a concedere prestiti ai paesi debitori in cambio dell’attuazione dei “piani di aggiustamento strutturale”, cioè delle riforme istituzionali quali privatizzazioni, deregolamentazioni e tagli alle spese dello stato sociale. Il Messico fu uno dei primi paesi a sperimentare tali piani.
Tuttavia l’aggiustamento strutturale non ebbe esito positivo: nel 2000 il debito dei paesi in via di sviluppo risultava essere di quattro volte più grande rispetto a quello del 1980. Al contrario le economie dei paesi del Centro beneficiarono da tali andamenti: riuscirono a sfruttare e ad appropriarsi di manodopera e risorse naturali dei paesi periferici a un costo molto minore.
Nel 1980 si verificò l’ascesa al potere di un’altra forza conservatrice, questa volta negli Stati Uniti: Ronald Reagan fu eletto presidente. «I consiglieri di Reagan erano convinti che la “medicina” monetarista di Volcker fosse la cura adatta per un’economia malata e affetta da stagnazione» , per questo motivo Volcker fu riconfermato alla presidenza della Federal Reserve. La politica economica di Reagan, oggi nota come “Reaganomics”, che in materia fiscale poggiava sulle idee dell’economista Arthur Laffer, fu trasparentemente liberista sin dal primo momento: egli dovette far fronte ad alti tassi di inflazione e disoccupazione; abbassò le tasse americane con la convinzione che ciò avrebbe portato ad un aumento delle entrate e degli investimenti. Le alte spese militari però (erano gli anni della corsa al riarmo) impedirono di raggiungere gli effetti positivi previsti.
Egli dovette scontrarsi, a causa della sua politica fortemente antisindacale, con il PACTO, il sindacato dei controllori di volo, che iniziò un lungo sciopero nel 1981. La vicenda si concluse con il licenziamento di migliaia di lavoratori, tanto che la disoccupazione negli USA a metà degli anni ottanta arrivò al 10 per cento, ed allo stesso tempo dette il via ad un lungo periodo di forte diminuzione dei salari. Tutto ciò fu accompagnato da una sempre crescente flessibilizzazione del lavoro, che dagli Stati Uniti fu poi esportata in vari stati.
Numerose furono, inoltre, le deregolamentazioni in molti settori, soprattutto in quello finanziario. Le politiche economiche di Reagan furono appoggiate dalla stampa (soprattutto quella finanziaria, ad esempio dal Wall Street Journal) e da scuole di gestione aziendale istituite in università (come Stanford e Harvard) che furono determinanti nella “costruzione del consenso”.
Il neoliberismo thatcheriano e reaganiano porterà poi al “Washington Consensus”: un insieme di direttive di politica economica destinate ai paesi in via di sviluppo, e che poggiavano sui pilastri della stabilizzazione e dell’aggiustamento strutturale.
Il neoliberismo economico attualmente non sembra essere uscito vittorioso dalle sfide alla quali aveva scelto di misurarsi a partire dagli anni ’70. Sintomatica in questo senso è la crisi finanziaria scoppiata nell’agosto del 2007 e che si protrae tuttora. Gli indici di declino economico assumono ormai una portata mondiale.
L’unica vittoria che ha dalla sua parte è quella di essere riuscito a restaurare il potere di classe, la “classe alta” dei banchieri e degli speculatori finanziari. La classe lavoratrice, al contrario, ha visto le sue condizioni peggiorare progressivamente.
Il comando dell’economia è passato dal mondo della produzione a quello della finanza che ha rafforzato la sua influenza su tutte le aree economiche, ed è stata resa sempre più libera dalla graduale scomparsa delle limitazioni poste da barriere e regolamentazioni. Il fenomeno della globalizzazione è anch’essa figlia del neoliberismo che ha riorganizzato la produzione e la finanza su basi transnazionali, erodendo il ruolo degli stati. Ma la globalizzazione ha con il tempo inciso negativamente nel mondo del lavoro, disintegrando i sistemi di protezione sociale e creando un mercato del lavoro depresso.
Tuttavia i limiti del neoliberismo erano noti già da tempo; la stessa dottrina neoliberista soffre di numerose contraddizioni, in primis, sul ruolo dello stato. Se da un lato, infatti, questo è doverosamente tenuto lontano dagli affari economici, dall’altro viene chiamato in causa nel momento in cui urge in bisogno di creare un “clima favorevole” per l’attività economica, e nel momento in cui c’è bisogno del suo intervento coercitivo per difendere il diritto alla proprietà privata ed alla libertà d’impresa.
Eric Hobsbawn ha scritto, in un articolo apparso qualche anno fa (dal titolo “Il socialismo ha fallito, il capitalismo è in bancarotta”, pubblicato su The Guardian tradotto per Senza Soste da Andrea Grillo “Il socialismo ha fallito, il capitalismo è in bancarotta”, articolo pubblicato su The Guardian tradotto per Senza Soste da Andrea Grillo), che «Ancora non conosciamo la gravità e la durata della crisi attuale, ma non c’è dubbio che vada a segnare la fine di quel tipo di capitalismo a mercato libero che si è imposto nel mondo e nei suoi governi nell’epoca iniziata con Margaret Thatcher e Ronald Reagan». Egli però, sostiene, che la soluzione non è il ritorno all’ ”economia mista” keynesiana. La soluzione ancora non si conosce, non essendo ancora note le dimensioni e le implicazioni precise della crisi.