L’architetto di fama internazionale aveva affidato alla casa editrice di Novara, dove era nato il 10 agosto 1927, il suo ultimo libro, Il mestiere di architetto, a cura di Matteo Gambaro, un testamento rivolto anche alle giovani generazioni.
«Capacità di modificazione creativa e critica dello stato delle cose» sono alla base della lezione e dei ricordi di un grande maestro dell’architettura internazionale. Gregotti, 92 anni, nel volume parte dal racconto della sua formazione intellettuale e degli anni novaresi per descrivere i tratti strutturali del suo modo di intendere l’architettura e la professione di architetto, con una raccolta di suoi disegni, significativi per l’approccio culturale nella costruzione del paesaggio. Dal quartiere di Palermo al Centro Culturale di Belém a Lisbona, dal Parco archeologico dei Fori imperiali a Roma a Pujiang in Cina le sue opere resteranno per sempre il segno di una progettazione socialmente consapevole. La sua è una esortazione a non rinunciare alla passione per l’architettura, intesa come teoria e pratica capace di apportare contributi rilevanti alla trasformazione della società, nell’idea di Gregotti che «sono l’idea di passato e di futuro a costruire insieme un frammento di verità del presente».
A chi gli chiedeva quali fossero i progetti di cui andasse più fiero, Vittorio Gregotti era solito rispondere cosi: «Il lavoro che mi rappresenta di più è sempre l’ultimo». Il suo ultimo libro diventa ora davvero il suo testamento.
Per Interlinea aveva in programma di scrivere un testo introduttivo sull’architettura della Novara del ventennio (in coedizione con Editoriale Nuova) e una nuova edizione del diario della sua giovinezza Recinto di fabbrica.
Vi proponiamo il testo autobiografico che aveva scritto per Il mestiere di architetto (Interlinea) sotto il titolo
TENDENZIOSA AUTOBIOGRAFIA
«Sono nato a Cameri, in provincia di Novara, nel 1927, in mezzo alle risaie ma dentro la fabbrica tessile della mia famiglia. Mio padre era il direttore della fabbrica con la passione per il volo e mia madre era una novarese con grande passione musicale e con un padre che era stato all’inizio del XX secolo per un decennio ingegnere dei percorsi ferroviari del Congo Belga, a quel tempo ancora di proprietà personale del re del Belgio. La fabbrica (o meglio, le fabbriche) erano di proprietà della famiglia industriale di mio padre (che possedeva anche le cartiere di Verona) dagli anni settanta del XIX secolo. Con mio fratello Enrico, di due anni più giovane, avevamo vissuto i nostri primi dieci anni in fabbrica con tutte le curiosità e la fratellanza dei nostri operai giocando al calcio con loro e girando a volte con loro con gli autocarri di servizio nel nord Italia, ma anche facendo esperienze di lavoro in fabbrica ordinate da mio padre. Ho frequentato le scuole elementari, come esterno, al Collegio Nazionale di Novara e poi ho frequentato ginnasio e liceo al Carlo Alberto, a lui intitolato forse in onore della sua celebre sconfitta; la personalità di questo triste rappresentante del regno piemontese ha sempre suscitato il mio affetto. Durante il liceo avevo coltivato il mio interesse per la musica, non solo suonando il pianoforte, ma anche dedicandomi alla composizione e alle sue teorie; più in generale mi interessavo alla storia dell’arte, architettura compresa. Finito tragicamente il conflitto, decisi di sottrarmi al fascino della fabbrica e di iscrivermi alla facoltà di Architettura di Milano. Dopo un primo anno piuttosto disorientato, nell’estate del 1947 mio padre, sapendo che la mia bonne mi aveva insegnato il francese sin da piccolo, mi offrì di passare l’estate a Parigi.
Questa esperienza nella città della cultura in quel momento più importante del mondo fu per me di grande importanza, e non solo per la facilità con cui ci si incontrava al caffè con i più interessanti artisti e filosofi del mondo facendo così esperienze nuove e grandiose, che per me culminarono con l’esperienza di disegnatore nello studio dei fratelli Perret per un mese.
Tornato a Milano, guardavo (ingiustamente) dall’alto i miei professori (quasi tutti salvo Giovanni Muzio) e decisi di cercare lavoro e soprattutto insegnamento presso lo studio BBPR, incontrando così il mio vero maestro, cioè Ernesto Nathan Rogers, che avevo casualmente incontrato alla libreria Aldrovandi di Einaudi, dove ogni sera chiacchieravano molti tra i più interessanti protagonisti della cultura italiana di quegli anni. Anche se ancora abitavo a Novara e frequentavo carissimi amici, il mio interesse si spostava a Milano: tra i miei compagni di corso, oltre a Gae Aulenti, vi erano Lodovido Meneghetti e Giotto Stoppino, che divennero poi i miei primi soci di studio.
Presso lo studio BBPR si incontravano in quegli anni molti tra i protagonisti della cultura del Movimento Moderno (da Walter Gropius a Le Corbusier, da Alvar Aalto ad altri) e tutti i protagonisti del razionalismo italiano. Così, insieme a Stoppino, collaborai con Rogers a un suo spazio alla Triennale e poi, nel 1951, ancora studente, fui invitato al convegno del CIAM a Hoddesdon, dove arrivai insieme ad Albini e conobbi molti dei protagonisti della nostra disciplina e anche alcuni della mia generazione.
Dopo la laurea mi fu offerta l’occasione di andare negli Stati Uniti, a Boston, New York e Chicago, dove rincontrai molti grandi architetti, conobbi Mies Van der Rohe e visitai molte altre opere, tra cui quelle di Franck Lloyd Wright.
Dopo questa eccezionale esperienza aprii a Novara il mio studio con Stoppino e Meneghetti e cominciammo a costruire le nostre prime opere, a Novara e nella sua provincia, partecipando anche a qualche interessante concorso nazionale e internazionale.
Nello stesso anno Rogers (dopo l’esperienza di “Domus”) venne chiamato a dirigere “Casabella” e la redazione fu composta da De Carlo, Zanuso e me, che divenni assistente in facoltà1 prima di caratteri stilistici e poi di Rogers.
Il lavoro di “Casabella” mi offrì molte occasioni di viaggi e di incontri con grandi personaggi, come quello con Henry Van de Velde, o come il viaggio a Mosca, dove parlai con Melnikov, conobbi Cecilia Kean e pranzai con Lilja Brik. Poi passai un’estate in Finlandia dove frequentavo Alvar Aalto, e un altro a Marsiglia dove nel 1953 conobbi Pablo Picasso e molti altri.
In Italia, avendo frequentato Enzo Paci e i suoi allievi come Enrico Filippini (e il suo e poi mio grande amico Peppo Brivio), fui l’unico architetto a partecipare al Gruppo 63, dopo aver frequentato a Berlino alcuni protagonisti del Gruppo 47.
Essendomi separato dai miei soci abbandonai Novara e passai alcuni anni a Milano lavorando solo o con alcuni amici occasionali e sperimentando con essi esperienze importanti.
Dopo essere divenuto professore a Milano (con alcuni allievi come Aldo Rossi e Renzo Piano), nel ’68 vinsi il concorso di professore a Palermo e nel 1974 fui chiamato a dirigere la Biennale di Venezia (dove riuscii a fondare la Biennale di Architettura); organizzai poi la “Gregotti Associati”, che durò con molte avventure in Europa e in Asia fino al 2018.
Vittorio Gregotti