Asciutto e potente il testo di Mirko Di Martino, bravo Orazio Cerino in scena a dargli voce e corpo, per narrare la storia tragica ed incomprensibile di Franco Mastrogiovanni, un uomo quieto, un maestro alto 193 centimetri, il più alto del mondo, appunto, da tutti ritenuto tranquillo, sul quale gravava, però, il marchio dell’ anarchico e del matto, in seguito ad un paio di ricoveri coatti per crisi depressive e a due processi subiti ma terminati con la piena assoluzione e il risarcimento dei danni.
Questo il primo pedaggio pagato da Mastrogiovanni alla sua sensibilità, al rifiuto delle convezioni sociali e alla ricerca di una vita più giusta e libera.
Un giorno, il maestro più alto del mondo, si macchia della colpa di fuggire all’alt della polizia dopo aver attraversato in velocità l’isola pedonale di un centro marino nel suggestivo Cilento. Non procura danni a cose o a persone, ma viene inseguito, braccato, giudicato pericoloso e passibile di un TSO.
Il maestro non si fida, si sottrae, si tuffa in mare e vi resta a lungo, poi, rassegnato, si consegna docile alle forze dell’ordine cantando Addio Lugano bella.
Forse ha avvertito il pericolo o, semplicemente, sa che da un altro ricovero nell’ospedale di Vallo non uscirà vivo.
A Vallo viene condotto contro la sua volontà e ricoverato nel reparto neurologico dove lo legano al letto di contenzione con fascette di dura plastica fissate ai polsi e alle caviglie e abbandonato a se stesso per quasi quattro giorni, senza cibo, né acqua sufficienti, né assistenza, se non quella terapeutica tutta a base di sedativi.
Non vengono ascoltati i suoi lamenti né le sue richieste di aiuto, nessuno si accorgerà delle condizioni critiche in cui versa, della sua crescente difficoltà a respirare, del sangue che gli invade i polmoni, della morte che lo trova legato e solo, il 4 agosto 2009.
Le menzogne dei medici e degli infermieri verranno smentite dalle telecamere, che ininterrottamente hanno ripreso ciò che accedeva in quella stanza. Ore di video, prove schiaccianti ed inconfutabili non impediranno le lungaggini al processo. La Cassazione condannerà tutti i responsabili, tutti eviteranno la galera.
La coppia Di Martino-Cerino non è nuova a progetti di teatro sociale, con già all’attivo lo spettacolo “Il fulmine nella terra. Irpinia 1980”, un monologo sul tragico terremoto che colpì le nostre genti nel novembre di 40 anni fa.
Anche questa volta il testo di Mirko Di Martino, che cura anche la regia della messa in scena, è la somma di un’accurata ricerca svolta sui documenti disponibili, delle sue intuizioni e dell’empatia analitica di cui è capace. Un testo nato per raccontare una storia di sopraffazione arbitraria, di quotidiana disumanità applicata alla “cura” di pazienti in difficoltà psichiatrica, una storia da raccontare affinché non si ripeta, da ascoltare per parlarne e diffonderla.
Orazio Cerino ne assume la responsabilità comunicativa in scena, da solo, sempre più a suo agio nell’affrontare storie di denuncia in ossequio ad un teatro narrato ed a un processo creativo che si fonda sulla sottrazione recitativa fino ad un perfezionismo naturale, impercettibile allo spettatore, e sa trasformare le parole scritte dall’autore nelle proprie parole, convincenti e del tutto credibili.
Intorno a lui, pian piano, metaforiche sbarre di legno, come rovi boschivi o ramificazioni polmonari, si alzano ad ingabbiarlo, ad impedirgli ogni possibilità di movimento e di respiro, comunicando l’ansia d’aria e di libertà necessarie alla vita, alla vita del maestro e alla nostra.
L’Alto Commissariato ONU per i Diritti Umani ha equiparato la contenzione alla tortura. Negli ospedali si continua ad applicarla e a morirne.
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