Migliorare le condizioni di lavoro delle donne è uno degli obiettivi del governo Draghi. L’ha esplicitato il Presidente del Consiglio nel suo discorso programmatico alle Camere: “Il divario di genere nei tassi di occupazione in Italia rimane tra i più alti di Europa: circa 18 punti su una media europea di 10. La mobilitazione di tutte le energie del Paese nel suo rilancio non può prescindere dal coinvolgimento delle donne”. Draghi intende puntare “a un riequilibrio del gap salariale e a un sistema di welfare che permetta alle donne di dedicare alla loro carriera le stesse energie dei loro colleghi uomini, superando la scelta tra famiglia e lavoro”. Se il tasso di occupazione femminile salisse dall’attuale 47% al 60%, secondo stime della Banca d’Italia, il PIL aumenterebbe del 7%. E il lavoro domestico potrebbe essere una delle leve sulle quali agire per l’inserimento di più donne nel mondo del lavoro.
L’Osservatorio nazionale DOMINA, nel suo Rapporto annuale sul lavoro domestico, ha stimato la spesa delle famiglie italiane, per badanti e colf, in circa 14,8 miliardi l’anno. La spesa pubblica per l’assistenza agli anziani, secondo i dati della Ragioneria Generale dello Stato aggiornati al 2017, è di 21,6 miliardi. Senza il contributo delle famiglie lo Stato dovrebbe investire in assistenza quasi 10 miliardi in più rispetto a quanto spende attualmente.
La gestione del lavoro domestico da parte delle famiglie non solo consente allo Stato di risparmiare costi per l’assistenza, ma porta molti altri effetti positivi. Uno dei principali è quello di permettere alle donne italiane di entrare – e rimanere – nel mercato del lavoro. La conciliazione tra tempi di vita e lavoro, problema irrisolto da parte del sistema pubblico di welfare, viene di fatto assolta dal basso, attraverso l’incontro tra domanda e offerta gestito direttamente dalle famiglie. Si determina un circolo virtuoso che si autoalimenta: una maggior presenza di donne che lavorano rende necessaria l’opera di colf e badanti e, viceversa, più servizi di cura favoriscono l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro.
“Se questa autogestione del welfare familiare garantisce standard qualitativi adeguati, ciò non deve determinare un arretramento dello Stato nella responsabilità della gestione della sanità e dell’assistenza alla persona, ma anzi dovrebbe rappresentare un contributo da valorizzare e premiare anche dal punto di vista fiscale”, suggerisce Lorenzo Gasparrini, segretario generale di DOMINA.