“la mia poesia è un’anima semplice, una barbona buttata nella fornace della realtà, che dai rimasugli si rigenera in …cartastraccia…” Aforisma G.M.
Giorgio Moio, poeta, scrittore, critico letterario, nato a Quarto (Napoli) nel maggio del 1959, dirige la rivista letteraria “Risvolti” da lui fondata nel 1998, per conto delle Edizioni Riccardi. Ha pubblicato numerose raccolte poetiche, organizzato rassegne e festival di poesia e progettato e curato varie mostre telematiche di poesia visuale. È presente con scritture verbovisuali e interventi critici in molte riviste, periodici, antologie, cataloghi d’arte, siti web.
La sua personalità eclettica e provocatoria, lo porta a sperimentare i campi più differenti del poetare, a misurarsi con i confini della parola, a chiedere al verso l’impossibile, Moio disegna con la sua poesia la pagina stessa dove essa è scritta, vi distribuisce frasi in partitura, scardina spesso il flusso del discorso e del senso, cerca quel punto di rottura dove la parola rischia di perdersi e poi si riafferma prepotente significativa unica. Il suo percorso attraversa anni, fasi, libri anche molto diversi tra loro, se ci si ferma all’apparenza della scrittura, ma sempre è possibile ritrovare nelle continue sperimentazioni dello stile un’esigenza forte di scompigliare il mondo per renderlo più credibile, un impulso vitale che aspira a trarre dal suo stesso dinamismo una “ratio” che consenta l’architettura di un pensiero rigoroso e esigente, a organizzare le immagini nel livello sonoro del discorso.
Non possiamo nell’ambito ristretto di questo articolo navigare in tutta la sua nutrita produzione, possiamo solo provare a tessere un filo d’Arianna che consenta al lettore di entrare nel profondo misterioso labirinto che Moio ha costruito e rivedere la luce portandoci dietro la profetica intensa visione del Minotauro che contiene, quel Minotauro che come ne “Los Reyes” ( I Re) di Julio Cortázar, dramma scritto nel 1949, impersona la Poesia che il Potere ha rinchiuso per impedirgli di parlare, etichettandola come mostruosa. Ma la Poesia persiste anche se nascosta, oscura, anche se additata come pericolosa e perversa, metà umana e metà animalesca, fuori dalle leggi imposte dalla logica della Storia e dai dettami di una politica inconciliabile con la sua stessa essenza. “Io sono un poeta che lascia il compiuto per incunearsi nei meandri dell’incompiuto” dirà in uno dei suoi aforismi e ancora “ …un continuo ed incessante lavoro di alterazione ondosa, internamente alla parola mi cattura: non vengo sopraffatto dal mal di mare…”. Moio possiede la lucida coscienza di questa “mostruosità” che sola può rimettere in discussione le obsolete leggi del mondo. “…se la vecchia ontologia fissa i termini di una cultura ammaliante e unificante bisogna dichiararla obsoleta: la catastrofe è già iniziata”.
Già dalle prime esperienze poetiche, pubblicate in “Per mutazioni”, che raccoglie poesie dal 1974 al 1987, Moio inserisce nei versi, a tratti e per certi aspetti ancora con andamenti lirici e metaforici, un principio di destrutturazione del verso, di esaltazione del “significante” linguistico, non in senso musicale ma in senso oppositorio al “significato” che porterà poi agli estremi nella sua ricerca poetica. Già da questi approcci giovanili il poeta fa meta-poesia, dai versi di “Rutta la terra” dove rende omaggio a Leopardi “…tu ginestra leopardiana,/ ancora appari fiera/ sul dirupo scosceso dell’Averno/dove la terra rutta/ e mai s’arresta” a quelli di “Follia”, dove definisce la poesia come “follia” che scava e si fa enigma che produce “un altro enigma” fino a “Parafrasando una poesia di Sanguineti” dove la sua scelta di campo si fa chiara nella deformazione del linguaggio: “spingi xpingi/che cuando tua madre ti partorirà figlia/ti regalerò/ un automa a Natale/lalmanakko dei già/nati/un po’ di mare del nord,/i resoconti del mib…”
Si annunciano sin dalle origini del suo percorso poetico i temi che saranno sempre i suoi: il discorso sul linguaggio che si ritrova in molti componimenti, “ossessione” che il poeta coltiva in ogni passaggio del suo “fare”; la sostituzione del simbolo con l’allegoria, la distruzione di ogni visione messianica e ideologica della realtà; lo svelamento della politica nei suoi vuoti di senso, il richiamo a un’etica privata e storica realizzabile solo nell’ambito di una “estetica” priva di compromessi. Nel suo libro “Aforismi” del 2011 ampiamente si dispiega la sua poetica con precise dichiarazioni d’intenti che non fanno che confermare la strada percorsa dal poeta che cerca la “pratica del frammento” per “scavare nei meandri disabitati della lingua, anche a rischio di sfiorare l’incomunicabilità, affrancando la conflittualità del linguaggio da un fatto prettamente privato, intimistico…”.
In “Scritture d’attesa” del 1989 ci troviamo di fronte ad alterazioni ortografiche continue, strumenti della frammentazione linguistica che già troviamo in alcune proposte futuriste e nei poeti del Gruppo ’63. Moio si ricollega alla Neoavanguardia , movimento letterario nato sul finire degli anni 1950, con la messa in crisi dell’entusiamo post-resistenziale, di fronte a una situazione politica che coerciva le grandi istanze libertarie che avevano animato la lotta antifascista; viene messo in discussione il neorealismo come “rispecchiamento della realtà” e cominciano a incamerarsi nella cultura italiana le istanze della fenomenologia e dello strutturalismo.
La neoavanguardia ripropone quindi l’audacia sperimentale delle avanguardie storiche e cambia il rapporto ideologia-linguaggio dando luogo ad uno sperimentalismo nella lirica e nella narrativa che si nega al “consumo” dell’industria culturale e rivela la mistificazione dei modelli comunicativi che lo sviluppo neocapitalistico ha inserito nel contesto sociale ideologizzando in questo senso la comunicazione e la letteratura.
Così come Edoardo Sanguineti, rappresentante di spicco del Gruppo ’63, sconvolgeva la lingua per sconvolgere le coscienze, Giorgio Moio accede allo sperimentalismo linguistico ma non solo per creare un’omologia strutturale della realtà come in Sanguineti, mettendo in scena la nevrosi del mondo contemporaneo, ma anche come un tentativo di salvarsi da quella “peste del linguaggio” di cui parlava Italo Calvino e che da ogni parte ci assedia, un modo per sottrarsi alla percezione automatica della parola e renderla estranea, diversa, fuori dal campo semantico abituale. “ingravido Tramonto violento/ volatyle …/in nebule di piombo/lumi nel Kampo di guerra/in agguato/dentro il sogno/nel grydo…”.
Nella raccolta “L’occhio allegorico” del 2005, la poesia si propone come “grafica” che scompone le frasi in sintagmi, in parole e le parole in fonemi irriverenti rompendo il flusso di senso, introducendo linee, frecce, persino emoticon, violentando il verso con segni di linguaggi tecnici che impediscono ogni consolatoria epifania, ogni facile contatto emozionale con la parola. La scomposizione accede poi alla pura iconografia dove la parola sembra dissolversi definitivamente diventando rigo nero che si intreccia con le forme e i colori, un filo che non conduce più fuori del labirinto ma ci lascia dentro attoniti a contemplare e soffrire l’oscurità dei corridoi senza uscita.
Questo bisogno di scomporre la parola attraversa ostinato gli anni del poeta; nella raccolta “Sui crespi marosi” del 2016 la scomposizione diventa sillabica, i versi sono spesso di una sola parola o monosillabici, l’ortografia costantemente si deforma e la composizione poetica accede alla verticalità dei versi divenendo una volta ancora visuale, come in molte delle avanguardie storiche, dove la sperimentazione cancella il confine tra linguaggio verbale e linguaggio visuale, al punto da accedere spesso alla dimensione dell’anagramma, sicché siamo obbligati a ricodificare il testo ma sotto il segno dell’ironia, della dissacrazione, della rinvenzione dello sguardo e della percezione che lo fa esplodere come un nuovo Big Bang. “sui/crespi/marosi/le/idee/fanno/il/surf/ideando/ideoline/alla/naftalina/-alla/-carta/-velina”.
Nei “Cento Ahi-ku extravaganti”del 2016, in cui una rigida regola compositiva obbliga il poeta a scrivere un quinario e due settenari, dove i primi due formulano una domanda e il terzo risponde, Moio mostra una grande padronanza del linguaggio operando perfette sintesi in questa imposta brevità della composizione che non limita gli orizzonti ma al contrario li allarga in una esperienza che si racconta per lampi. Ancora e sempre il linguaggio è il segreto che si indaga spogliandolo delle sue consuetudini per aprire laceranti visioni del proprio sé ma non in senso psicologico quanto in senso di collocazione nuova nella trama del mondo, così si ristabilisce lo stupore, la dinamica segreta delle cose, così si opera quello “straniamento” di cui parlavano i Formalisti russi nella loro rivoluzione linguistica agli inizi del XX secolo.
Questo stesso “straniamento” come unica condizione per mantenere in vita il linguaggio, Moio lo promuove sia nella sua poetica che nella pratica del verso. Ancora dai suoi Aforismi prendiamo una citazione che ci permette di comprendere la sua prassi poetica: ”ancora lo scarto dalla norma è il dato più significativo per un poeta,ma non come gusto di rompere, di azzerare le forme evanescenti, bensì come consapevolezza di trovare in esse un enigma: da esprimere come complessità linguistica”.
Negli Ahi-ku questo enigma ha la perfezione di un diamante: “impertinente/il burlesco di un verso:/si fa vortice”; “interpretare/fluirama della vita:/s’amplia l’assenza”; “tra la cronaca/sbavano certi poeti:/senza una croce”.
La poesia di Moio è come il Minotauro di Julio Cortázar al centro del labirinto, ha la stessa forza eversiva della rinvenzione del mito operata dallo scrittore argentino, imprigionato si libera nella stessa contraddizione che sostiene la sua vita, rappresenta la poesia il cui linguaggio si oppone a quello sclerotico del potere, è per il simbolo dell’ identità e dell’unicità, e questa è la sua vera mostruosità secondo il potere. Anche per Moio la “mostruosità” va assunta dal poeta, scagliata contro le convenzioni, la mostruosità della diversità, del “mirabile a vedersi” contenuto nell’antica parola, quella che sola può rifondare un’etica della dignità; contro cosa il poeta lo dice continuamente, contro quella omologazione umana e politica che ci rende maestri di inganni: “in parlamento la parola è un parcheggio di menzogne: una rarità che si piega all’omologazione dell’usura”. Contro questa parola mistificatrice, “imbecille”, masochista, il poeta si sente chiamato ad agire creando “un linguaggio della contraddizione che non affabuli ma aggrovigli, che non addomestichi ma interroghi, insomma, a un linguaggio che contenga un accumulo delirante di parole deliranti,ironiche, parodiche, che il poeta come il chirurgo è chiamato a scorticare la parte infetta, a tagliare, aprire squarci nella sua materia: ogni qualvolta il risultato si avvii verso l’ovvio…”
Quello dove Moio si addentra e ci conduce è un labirinto. E del resto quale altro luogo è possibile immaginare se non questo, data l’alienazione in cui vive l’uomo contemporaneo?
Laborintus, si chiamava l’opera di esordio di Sanguineti, scritta tra il 1951 e il 1954 e pubblicata nel 1956, un poemetto, suddiviso in ventisette capitoli, dove alla base troviamo la riflessione sul ruolo della letteratura attraverso la più radicale manipolazione del linguaggio.
Siamo davanti a un archetipo, ossia a un’immagine fissata nell’inconscio collettivo dell’umanità, secondo le teorie dello psichiatra svizzero Carl Gustav Jung.
Sappiamo che Jung è una delle fonti di Sanguineti, accanto al Surrealismo, al Dadaismo e alla Scuola di Francoforte, con le sue critiche nei confronti della società industriale e
sappiamo che Sanguineti è uno dei riferimenti forti di Moio.
Dentro questo luogo archetipico il poeta viaggia e sperimenta nel suo percorso inconscio, individuale e collettivo, compiendo insieme un ritorno alle origini e la sua discesa agli inferi. Si creano libere associazioni, si smembra il linguaggio, si opera una continua destrutturazione sintattica, ritmica, concettuale e al centro del labirinto, ecco finalmente il Poeta incontra se stesso, quel Minotauro, magnifico ibrido di natura e ragione, partecipe di due mondi, simbolo junghiano della complessità del nostro inconscio e simbolo cortazariano della più radicale trasgressione poetica.