Da qualche anno il giudice occupa la camera nove, dal lunedì al venerdì è riservata per lui. Rientra la domenica sera, sempre con la sua valigia nera e la borsa d’ufficio. Gli hanno dato l’incarico nel nostro Tribunale ma lui non ha voluto spostare la famiglia dal paese e allora fa il pendolare. Mi pare faticoso per lui ma sicuramente ha le sue ragioni. Prima di lui non avevamo mai riservato una stanza per tanto tempo a nessuno ma il giudice ha ispirato fiducia a Giacomo e lui lo ha accettato. Anche lui credo abbia fiducia in noi. Lascia spesso nella stanza gli incartamenti del suo lavoro. Li spostiamo per pulire ma nessuno li apre mai.
Sta fuori dalle dieci del mattino alle quattro del pomeriggio, quando rientra in hotel lavora ancora per due ore, poi scende al nostro bar, si prende un caffè rapido e esce. Gli piace passeggiare per la nostra città, dice che è pulita, ordinata ma senza essere noiosa come altre che ha visitato, ci trova qualcosa di speciale che lo intriga. E gli piace mangiare il pesce nei ristoranti del lungomare. Dopo cena rientra all’Hotel, si fuma un sigaro nella zona ammessa, chiama la sua famiglia e va a dormire. Uno schema che si ripete immutato nei giorni al punto che su di lui possiamo regolare un orologio.
Per questo mi sorpresi quando quel lunedì sera, tornando dalla sua cena, si sedette nel giardino dell’hotel e ordinò un cognac. Glielo portai. Non aveva l’aspetto di sempre, quello di un uomo controllato e severo, fatto per il mestiere che faceva. Persino i suoi abiti di solito perfetti parevano scomposti come il suo viso.
-Qualcosa non va, signor giudice?- gli chiesi sperando che quella mia inusuale invadenza non lo infastidisse in qualche modo.
Mi offrì uno dei suoi sigari, mi chiese di sedermi con lui.
-Non fumo, signor giudice, grazie. Posso aiutarla in qualcosa?
Erano anni ormai che ci conoscevamo, ma avevamo sempre mantenuto rapporti formali, da albergatore a cliente, senza nessuna confidenza tra noi.
-Può ascoltarmi, se vuole, le chiedo un poco del suo tempo. Ho bisogno che stasera qualcuno mi ascolti. Sa, di solito sono io che ascolto gli altri ed è un ascolto difficile quasi sempre, perché in quello che mi viene detto si pretende che scopra la verità. Lei sa cos’è la verità?
Gli dissi che non lo sapevo, che solo conoscevo le piccole verità di ognuno, ma la verità di cui parlava lui, quella assoluta, incontrovertibile che doveva affermare nei suoi giudizi, quella proprio non la conoscevo.
-Oggi ho dovuto condannare una donna che avrei voluto assolvere. Ho sempre seguito la legge con onestà, ho emesso i miei giudizi cercando di non perdere la pietà umana mentre applicavo la legge, Non sono abbastanza arrogante da credermi infallibile. So che qualche volta ho sbagliato, ma se l’ho fatto è stato in buona fede, credendo di fare la cosa giusta.
– È importante, signor giudice, avere la coscienza a posto.
-Lei crede che la coscienza non ci inganni mai? Se avesse passato come me la maggior parte del suo tempo in un’aula di Tribunale saprebbe che la coscienza è qualcosa di molto labile, come i valori su cui la fondiamo, così com’è labile la mente e le azioni che compiamo, anche loro si sfilacciano, si deformano mentre qualcuno le guarda, le cataloga, le giudica.
Mi servii anch’io un cognac, quello che mi stava dicendo aveva bisogno di qualcosa di forte per essere digerito.
-Chi ha dovuto condannare oggi, può dirmelo?
Sapevo che non mi avrebbe fatto alcun nome, solo esposto i fatti ma con un cedimento nuovo dentro il rigore che lo aveva accompagnato sempre.
– Una donna che ha ucciso il marito, l’ho condannata e ho gettato i suoi figli nel buco nero dell’assistenza pubblica, perché non c’è nessun parente che possa occuparsi di loro, un bambino di tre anni e una bambina di sette, che verranno separati, capisce?
Gli si consumava il sigaro tra le mani, quasi non lo aspirava.
– Era colpevole la donna, a suo giudizio?
– No, era colpevole per la legge, per me era una vittima. Ci chiamano giudici ma non sempre possiamo esercitare un libero giudizio conforme alla nostra convinzione, siamo al servizio del sistema come tutti gli altri, giudichiamo in base alle prove e a volte le prove mentono, noi lo sappiamo. Anche se vediamo un’altra verità nel volto di chi abbiamo davanti…non serve, se non si conforma alla legge, se non può essere comprovata.
Pensavo a quali prove possano essere portate per dimostrare quello che siamo e a quante menzogne possano schiacciarci nel tentativo di essere veri. Non accadeva forse a tutti di subire il giudizio e la condanna senza efficacia nella difesa?
Il giudice mi raccontò della condannata. Da anni subiva violenza nella sua casa, una spirale di denigrazioni, offese, sottomissioni e botte. Persino quando era incinta. All’ospedale aveva denunciato tutto come conseguenza di accidentali cadute. Una poliziotta un giorno era riuscita a farle ammettere che era stato suo marito, lo avevano chiamato in centrale, diffidato, ma dopo qualche giorno era tornato a casa e tutto era cominciato come prima.
Poi c’era stato il fatto del bambino e quello aveva acceso il terrore negli occhi di lei. Era andata in terrazza a stendere e aveva sentito le sue grida. Entrando di corsa in cucina aveva visto lui al balcone che teneva il bambino sospeso nel vuoto e lo minacciava di buttarlo giù. La bambina rannicchiata sotto il tavolo gridava: -No, papà, no- e tremava.
Non sapeva come si era avvicinata a lui, con una calma disperata, le aveva parlato con voce affettuosa. -Mettilo giù, per favore. Dimmi cosa ha fatto, lo puniamo insieme- e pian piano era riuscita a strappargli il figlio dalla sua morsa e a stringerselo tra le braccia. Poi aveva chiuso i bambini in camera e si era nascosta addosso la chiave. Quando era tornata in cucina lui era ancora in preda alla rabbia e stava rompendo i piatti messi a scolare sul lavandino. -I tuoi figli sono inutili come te- le gridò prendendola per i capelli.
Il giudice mi raccontava la scena come se stesse svolgendosi in quel momento davanti a noi, una sequenza di immagini perturbanti che stava diventando per me insopportabile.
-La notte, mentre lui dormiva, si è alzata dal letto, ha preso un martello grande dalla cassetta degli attrezzi e lo ha massacrato, è andata in bagno, si è tolta i vestiti insanguinati, se n’è messa altri puliti, si è seduta in cucina, su un biglietto ha scritto “Sono sola. È stato necessario. Avrebbe prima o poi ucciso i miei figli. Di me ormai mi importa poco. Per favore trovate una buona famiglia per i miei bambini”. Poi è entrata nella loro camera, li ha baciati. La polizia che lei stessa ha chiamato l’ha trovata seduta tranquilla con le mani nel grembo. Ha indicato la sua stanza da letto, ha detto ai poliziotti che i suoi bambini dormivano nell’altra camera e si è fatta portare via senza nessuna resistenza. Io questa donna oggi, nonostante le attenuanti, ho dovuto condannarla per omicidio.
Ci bevemmo un altro cognac. La notte non ci era parsa mai così oscura.
Da quel giorno lo guardai in modo diverso. Non mi ero mai soffermato sui possibili tormenti del suo lavoro. Mi pareva che un giudice dovesse avere il controllo delle sue emozioni sempre. Ma quella sera ho capito come non ci sia niente che ci salvi dal giudicare noi stessi prima di tutti gli altri.
Quando seppe che avremmo chiuso in bassa stagione per i restauri, disse che ne avrebbe approfittato per chiedere le ferie. Avrebbe portato la sua famiglia in vacanza. A differenza di lui, a loro piaceva la montagna d’autunno e lì sarebbero andati, avrebbero affittato una baita in qualche vallata alpina, e fatto lunghe passeggiate tra i boschi.
Dopo quella sera ce ne furono altre dove bevemmo insieme un cognac. Non sempre mi raccontava dei suoi casi, e quando lo faceva era in modo in apparenza asettico, ma mentre esponeva i fatti io percepivo quel tarlo dentro che lo aveva invaso e che ormai non lo abbandonava. Mi sembrava un previlegio condividere il suo dolore. In questi anni la sofferenza degli altri che mi è stata regalata mi ha aiutato a capirli e a capirmi e per me non c’è niente che sia più prezioso di questo.
Quando finimmo i restauri dell’hotel il giudice tornò. Gli diedi la stessa stanza ma rinnovata nelle pareti e negli arredi. Disse che gli piaceva, che era più accogliente. Giacomo era in Canada con sua moglie. Mi mancavano le ore trascorse con lui. Ma il giudice cominciò a riempire quel vuoto e le sue storie finirono nei miei quaderni. Di questo gli sarò sempre grato.
Da “Memorie di un portiere di notte”, Grazia Fresu
Foto di copertina generata con Copilot per Cinque Colonne Magazine