Un’ occasione per riflettere collettivamente sulle realtà industriali e sulla condizione operaia di ieri e di oggi. Bagnoli come Castellammare? Analogie e differenze.
Il libro intreccia il suo destino con quello di Castellammare di Stabia, piccola città lungo la costa a sud di Napoli. Una popolazione di sessantamila abitanti, di cui almeno quindicimila emigrati, il tasso di disoccupazione giovanile tra i più alti in Italia.
Un tempo terza città industriale della regione, fu soprannominata la “Stalingrado del sud”. Di quel passato rimane ben poco: un cantiere navale tra i più antichi d’Europa, in cui lavorano seicentocinquanta maestranze, per la maggior parte poco più che trentenni, alcuni dei quali figli, nipoti e pronipoti di lavoratori di quello stesso cantiere, sorto sotto il regno di Ferdinando IV di Borbone. L’ultimo spazio del lavoro operaio in quella che le istituzioni definiscono un’Area di crisi.
Un mestiere segnato da cambiamenti radicali, eppure ancora legato alla effimera libertà che risiede in un’attività non del tutto automatizzata, esercitata da secoli e tramandata da generazioni in quella piccola città di provincia.
C’è una questione che resta sempre ai margini, nei dibattiti sulle sorti della nostra città. Si gira spesso intorno al ricatto della camorra, alla preoccupante violenza, alla mancanza di servizi pubblici efficienti, a una classe dirigente sempre uguale a se stessa; ci si aggrappa ogni tanto al miraggio del turismo o del grande evento, alla retorica delle eccellenze.
Quasi nessuno tira in ballo un processo epocale, giunto quasi al termine della sua parabola, ovvero lo smantellamento del tessuto industriale in tutta l’area metropolitana, da cui dipendono in buona parte gli esorbitanti indici di disoccupazione e la ripresa dell’emigrazione interna. Scomparse le fabbriche maggiori, con le grandi crisi di settore (metalmeccanico e chimico su tutti) si diradano anche quelle medio-piccole. Pochi ne parlano, quasi fosse un tabù o una battaglia ormai persa, ancor meno quelli che studiano, indagano, si preoccupano di descrivere l’umanità che si cela dietro le impassibili cifre su licenziamenti e cassa integrazione, mobilità e prepensionamenti.
Da Il fuoco a mare di Andrea Bottalico
“Se le navi non c’erano non c’era lavoro, e il lavoro di certo non avrebbero potuto inventarselo. Erano rotelle di un immenso ingranaggio. Tuttavia costruire navi diventava sempre più una questione politica, dettata da scelte che stavano a monte del processo produttivo e che non dipendevano solo da loro. I compagni del consiglio di fabbrica affermavano, sbattendo il pugno sul tavolo, che erano nati per fare le navi e le navi dovevano costruirle a vita, fino alla fine, ma Raffaele in certi momenti pensava anche a un’alternativa. Dove stava scritto che bisognava buttare il sangue in quelle navi? Lo sapevano, gli operai, chi avrebbero arricchito? Lo sapevano che quelle navi servivano agli stati per fare le loro guerre? Perché, dentro al Cantiere da cui era sceso a mare l’Amerigo, stavano iniziando a costruire quei cassoni così orrendi? E che miglioramenti avrebbero portato i nuovi macchinari automatici? La situazione cambiava in fretta. Erano alcune delle domande che emergevano, in particolar modo il giorno dopo le tragedie, quando lo sconforto e il dolore prevalevano sul silenzio“.
La fine dell’era industriale meriterebbe ben altra curiosità, profondità d’analisi e di racconto. In questo panorama, il libro rappresenta un’eccezione importante.
Con l’autore parleranno oggi a iocisto la libreria di tutti a Napoli, Emilia Leonetti giornalista, Umberto Masucci presidente Propeller club. Saluti di Marinella Pomarici, A Voce Alta.
Le copertine sono timbrate a mano da ottoeffe!