Alcuni dicono che lei sia nato alle ore venti del ventiquattro maggio del 1900 al Palazzo di Don Nicola – che poi era il nome del portinaio – tra via Colonna e Piazza Amedeo.
Ma lei dice di non ricordarselo, è vero?
Sì perché il primo ricordo che ho della mia infanzia è a Roma. In particolare ricordo lo sgomento che in me suscitarono il fragore degli applausi scroscianti e la luce abbagliante dei riflettori, ricordi che non si sono più cancellati dalla mia memoria. Ero con la Compagnia di mio padre, Eduardo Scarpetta, e si metteva in scena “La Gheisha”, l’operetta da lui rivisitata. Nel finale veniva mostrato al pubblico un piccolissimo cinese. Quel bambino di quattro anni ero io. Con il teatro nel sangue a 13 anni ero già attore di professione.
Una famiglia d’arte e complessa la sua.
Mi ci volle del tempo per capire le circostanze delle mia nascita perché a quei tempi i bambini non avevano la sveltezza e la strafottenza di quelli d’oggi e quando a undici anni seppi che ero “figlio di padre ignoto” per me fu un grosso choc. Sono molto orgoglioso di mio padre, ma d’altra parte la fitta rete di pettegolezzi, chiacchiere e malignità mi opprimevano dolorosamente. Mi sentivo respinto, oppure tollerato, e messo in ridicolo solo perché “diverso”.
Quindi nessun corso di recitazione, accademia o altro?
Niente Silvio D’Amico o Paolo Grassi. La mia vera casa è il palcoscenico, là so esattamente come muovermi, cosa fare: nella vita, sono uno sfollato. Sulle tavole incominciai a muovere i primi passi, a balbettare le prime parole, a storpiare i nomi dei protagonisti delle tragedie che recitava mio padre, e ad affrontare le prime particine, il primo ruolo importante, e a concepire finalmente la prima incertezza, il primo dubbio su quello che sarebbe stato il mio avvenire.
Quando ha incominciato a dirigere?
Presto. Quando dovetti adempiere agli obblighi di leva nel 1920 nella caserma dei Bersaglieri a Trastevere. Mi aiuto la mia notorietà e il Colonnello Messe che mi mandò a chiamare e mi incaricò di organizzare delle recite in caserma. Ottenni risultati così apprezzabili, che ogni sabato alle ore diciassette i soldati rinunziavano alla libera uscita per assistere alla recita nel cortile della caserma. Là dentro scrivevo atti unici e sketches che entrarono a a far parte del repertorio dei bersaglieri attori.
Quindi era lontano dalle scene ufficiali?
Naturalmente no (ride). Ogni sera uscivo dalla caserma per andare a prendere il mio posto sulla scena del Teatro Valle. Grazie all’attività dilettantistica potevo continuare a fare l’attore professionista. In caserma ero esentato dalle istruzioni ed in undici mesi di servizio non ho fatto che una marcia sola: da Trastevere al Forte Bravetta, 14 Km, a dire il vero, non mi stancarono affatto. Non ero allenato, ma avevo vent’anni. Con quella stessa forza convinsi mio fratello e mia sorella ad entrare a far parte di una mia compagnia.
Tornò subito a Napoli?
A dire il vero avevo un accordo con il Cinema Appio di Roma. Ma mia sorella Titina non poteva lasciare la compagnia del Teatro Nuovo di Napoli. Solo nel 1931 siamo riusciti a passare dalle parole ai fatti.
Maestro da qui la storia la conosciamo a memoria: Lei, Titina, Peppino, Tina Pica ed altri, era l’atto unico di “Natale in casa Cupiello”. Poi arrivò Pirandello…
Veramente già a diciannove anni vidi per la prima volta la messa in scena di un testo di Pirandello, “Sei personaggi in cerca d’autore”. Mi ricordo che alla fine dello spettacolo attraversai i corridoi del Teatro Mercadante muto ad ascoltare la folla che discuteva di Pirandello. Ancora oggi, posso sentire la malinconia che mi lasciò nel cuore l’impossibilità di conoscere l’autore in quella occasione. Dovetti aspettare due anni quando, all’uscita del Politeama, gli gridai: «Viva Pirandello!». E l’applauso della gente diventò ovazione. Dovetti aspettare il 1933, ero in scena al Sannazzaro, quando Achille Vesce, il critico de Il Mattino, mi procuro questa gioia. Io ricordo ancora Pirandello seduto al mio camerino accanto a me, Titina e Peppino: e fu la sua semplicità che mi spinse a chiedere il permesso di tradurre Liolà. La stessa sera gli parlai della possibilità di fare una commedia con la sua novella “L’abito nuovo”. Facciamolo assieme mi disse ed eccomi al suo scrittoio a Roma nel 1935 dalle cinque del pomeriggio alle otto di sera. I fogli, le prove, gli scontri e l’amore per il teatro ci accompagnarono per tutta la nostra vita.
Oggi, in quale situazione è il teatro italiano?
Sempre la stessa. Siamo il Teatro più depresso e più vicino alla morte fra tutti i paese civili del mondo. Anzi, come dice Daniele Timpano «il teatro è morto!». Personalmente potrei risparmiarmi questo discorso. Io, il mio teatro, sono riuscito a farlo applaudire in patria e all’estero, nonostante mille difficoltà. Ma non ci si può sentire paghi di una posizione di privilegio in mezzo alla terra bruciata, di avere una bella casa in mezzo alle macerie. Nella società moderna, le torri d’avorio possono trovare posto soltanto nei musei, perché a lungo andare ogni possibilità di comunicazione fra l’arte e l’umanità cessa, se si affievolisce fino a scomparire la consuetudine degli uomini di nutrirsi, oltre che di fettuccine, di competizioni sportive, di canzoni e di sermoni, anche delle emozioni, degli insegnamenti e del divertimento che l’arte può offrire. Il teatro, almeno quello borghese, è morto e ora noi ci muoviamo sul suo cadavere putrefatto. Mi dirai che la televisione, gli smartphone, sono le cause di questo illustre decesso. Questa è una tesi che, per essere dimostrata, ha bisogno di una risposta a questa domanda: cosa è stato fatto per aiutare il teatro a vivere? In tutta coscienza non solo si deve rispondere che non è stato fatto nulla, ma bisogna affrettarsi ad aggiungere che è stato fatto tutto il possibile e persino l’impossibile per aiutarlo a morire.
Quali sono queste torri d’avorio, chi vive al suo interno? E dove posiziona il pubblico?
Certamente nelle torri d’avorio non ci sono spettatori spettatori. Loro sono la terra che si sta bruciando. Ogni anno decine di migliaia di spettatori si staccano per sempre dal teatro senza che altri prendano il loro posto. Le torri d’avorio sono il prodotto della posizione intrapresa dallo Stato nei confronti del teatro, una posizione tristemente ambigua. Il suo intervento – e sono anni che mi ripeto su questo punto – produce un teatro, o di uno pseudo teatro, gradito alla ristrettissima cerchia di beneficiati, oltre che agli sprovveduti benefattori. La “provvidenza” va a favore di una serie di teatri stabili – stabili per modo di dire – ove si innalzano grosse nuvole di fumo su pochissimo arrosto. Ora vediamo cosa succede con la riforma dei teatri nazionali. In cuor mio avrei guardato all’Europa e non solo all’Italia. Quando non si tiene conto del pubblico cosa succede? Che il pubblico si vendica e a teatro non ci torna più.
Cosa consiglia ad un giovane che vuol fare teatro? Quel “fuietevenne” vale sempre?
Questi giovani sono una goccia d’acqua al centro del buio. Purtroppo, nella maggior parte dei casi, sono alla mercé di chi ha il coltello per il manico – di chi può accettare o rifiutare un copione, dare o non dare una scrittura, assegnare una parte importante o scadente, commissionare o no una scenografia – non sono nella condizione di aprir bocca. I giovani sono un teatro potenziale, a loro affiderei il suo futuro. Dico di arrabbiarsi, ma non si devono mettere in testa che sono infallibili. Per esempio io lo sfogo – ancora adesso – lo butto in palcoscenico. I personaggi me li sono creati sulla scena: una sera un carattere, una sera un altro e posso evadere. Ai giovani, consiglio di presentarsi davanti ai loro modelli e cercare di porgergli domande e di dubitare delle loro risposte. Fuietevenne? Io che appartengo a quella generazione passata, che tra le altre cose è più presente del presente stesso, ho provato a spezzare un meccanismo che non permetteva ai nuovi teatranti di crescere. Ripeterei quel Fuietevenne all’infinito per salvare dalla pigrizia e dal malcostume che li circonda.
Alle volte, con alcuni amici teatranti, giochiamo con questa domanda che vorrei sottoporre a lei: cose è il teatro?
Quando il pubblico ci crede: è teatro. Ma questa domanda andrebbe declinata: a chi serve il teatro? Mi ricordo che quando volevo mettere in scena “L’arte della commedia” feci domanda al Banco di Napoli per ottenere un mutuo ipotecario. Me la respinsero dicendo che il Banco di Napoli concede mutui ipotecari solo per opere di pubblica utilità. Il teatro non è utile al pubblico. Allora scrissi all’onorevole Andreotti, presso la Direzione del teatro: «La prego, onorevole, di informarsi se è vero che lei ed io siamo inutili. Se è così, che ci stiamo a fare? è meglio andarsene…» E l’onorevole Andreotti? S’insormò. Il Banco di Napoli confermò. Inoltre è sacrificio. Quando sono in palcoscenico a provare, quando ero in palcoscenico a recitare… è stata tutta una vita di sacrifici. E di gelo. Così si fa il teatro. Così ho fatto! Poi, come ho raccontato al caro Enzo Biagi: Teatro significa vivere sul serio quello che gli altri, nella vita, recitano male.
Cosa ne pensa della gestione del Mercadante e del suo San Ferdinando? O non vuol fare polemica?
Ma ci deve essere polemica! Se non si litiga non potete venire a capo di niente. Nel lavoro teatrale ci vuole una certa cattiveria. Ho detto spesso che il teatro rigetta uomini e donne; accetta soltanto bestie di palcoscenico: maschie e femmine. Cosa posso aggiungere? Che Cechov mi prende ancora in giro…
In che senso maestro?
Durante l’ultimo Napoli Teatro Festival Italia, nel trentennale della mia morte, dice di avermi battuto 4 a 2. Anzi 2 a 4, lui giocava fuori casa.
Ha ancora senso portare i suoi testi in scena?
Dovresti chiederlo agli autori che in questi anni hanno rimesso mani e cervello nei miei testi. Questa domanda dovresti porgerla a Fausto Russo Alesi, Antonio Latella, Toni Servillo e spero a tanti altri. Oppure al pubblico, o a quello che ne rimane.
Ultima domanda, poi le prometto di lasciarla andare in pace. Come si sta in paradiso?
Fa freddo. E poi quando cammino per le strade e mi capita di battere duo o tre volte il piede in terra perché mi si è attaccata qualcosa sotto la scarpa, mi sorprende sempre il fatto che quei colpi battuti non producono lo stesso rumore di quando batto il piede sulle tavole di un palcoscenico.
La presente intervista mai fatta ad Eduardo De Filippo parte dal presupposto che “la memoria mi dà solo quello che la mia fantasia richiede, e quello che le piace di ricondurre al presente” (EDF). Riporre nella memoria la fede, quando il nostro mondo è legato per forze di cose ad altri tempi ed altre carni, è un piccalo esperimento. Credere, anche quando non è vero, questo è quello che mi ha detto Eduardo. Sorprendersi quando i colpi battuti dal piede sull’asfalto non producono lo stesso rumore di quando battono sulle tavole del palcoscenico
argomenti e risposte tratte da:
Lettera di Eduardo al Ministro dello spettacolo, in Teatro anno zero, Luciano Bergonzini e Federico Zardi, Parenti editore, Firenze, Lettara di Eduardo a Pirandello, in La Napoli amara di Eduardo de Filippo, Frascani Federico, Parenti Editore, Firenze, 1961
Lezioni di teatro, Eduardo De Filippo, Einaudi, Torino, 1986
Eduardo De Filippo, Gennaro Magliulo, Cappelli editore, Bologna, 1959
Teatro, Eduardo De Filippo, Meridiani Mondadori, Milano, 1995
Ultimo discorso pubblico al Teatro di Taormina, 1984
Quante storie, Enzo Biagi, Rizzoli, Milano, 1989
Memoria popolare e personale