48 ore, la SuperLega europea che doveva rivoluzionare il mondo del calcio ha registrato il suo fallimento in soli due giorni. Com’è successo? Quali sono stati i fattori che ne hanno decreto la “morte”?
Il fallimento delle SuperLega Europea, l’idea che doveva cambiare il calcio (dei più ricchi)
12 club, 12 squadre che volevano cambiare il mondo del calcio staccandosi dalla UEFA per creare un nuovo torneo che sarebbe andato a colmare gli oltre i 7 miliardi di debiti che tutti i club fondatori hanno attualmente. La SuperLega europea nata per rivoluzionare il calcio ma in realtà nata per mettere un freno alle enormi perdite che le maggiori squadre europee stanno subendo. Si era partiti in pompa magna tra sito, diritti televisivi e dichiarazioni del presidente Florentino Perez e del suo vice Andrea Agnelli. I presidenti di Real Madrid e Juventus sono i padri fondatori di questo progetto che nel giro di 48 ore, però, ha trovato la sua fine grazie a tre grossi fattori: la UEFA, i governi e i tifosi.
Il primo fattore: la UEFA
Il nemico numero uno per la neonata SuperLega. La UEFA non ha mai accetto la creazione delle SuperLega ancor prima della sua ufficiale nascita ed ha fatto di tutto per risolvere la spinosa situazione. Le misure della UEFA e della FIFA sono state durissime:
- approvazione della nuova formula della Champions League che passa da 34 a 36 squadre
- posizione congiunta con la FIFA per dire NO alla SuperLega
- minaccie di esclusione dai campionati nazionali ed internazionali per i club coinvolti col progetto SuperLega
- pericolo di non convocazione in nazionale per i giocatori dei club della SuperLega
Insomma, posizioni dure ma precise che hanno convinto subito Manchester City e Chelsea a tornare per prime alla “casa madre” UEFA anche perché l’esclusione dalle coppe europee avrebbe compromesso le loro stagioni in Europa con le squadre di Guardiola e Tuchel arrivate in questo momento alle semifinali di Champions League.
Il secondo fattore: i governi… e Boris Johnson
Se a UEFA e FIFA non faceva piacere avere la SuperLega, il governo inglese guidato da Boris Johnson lo ha accolto ancora peggio. Il premier britannico non ha perso tempo e tempestivamente si è attivato a risolvere con i suoi poteri la situazione. Dopo aver chiamato a raccolta i presidenti delle società militanti in Premier League, Johnson ha iniziato a fare grosse pressioni sui 6 club inglese della SuperLega colpendoli dove faceva più male ovvero alle loro casse e ai loro tesserati.
Il premier britannico ha, infatti, intimato ai club di uscire dalla SuperLega altrimenti avrebbe ordinato di ritirare tutti i visti di lavoro per i giocatori non inglesi dei 6 club, la sospensione dei benefici fiscali di queste squadre e garantito la futura non presenza della rete di sicurezza pubblica per le successive partite di queste squadre “traditrici”.
Promesse che si sarebbero trasformate in realtà se i sei club nel giro di una nottata non avessero deciso di lasciare definitivamente il progetto SuperLega con tanto di scuse ai propri tifosi. Una vittoria su tutta la linea per il governo di Boris Johnson.
Il terzo fattore del fallimento della SuperLega Europea: i tifosi
Infine, chi davvero non ha digerito questa SuperLega sono stati gli stessi tifosi delle squadre coinvolte. Le proteste maggiori sono state fatte nella patria del calcio, l’Inghilterra. Fuori Anfield Road, lo storico stadio del Liverpool, i tifosi dei Reds hanno esposto striscioni dove mostravano il loro disappunto (per dirla in maniera “dolce”). Le proteste vere e proprie sono state fatte a Londra con i tifosi del Chelsea che per tutta la giornata hanno protesta fuori il loro stadio. I tifosi del Blues hanno addirittura bloccato la strada al bus del Chelsea che si stava digerendo allo stadio per disputare la propria partita di campionato. A sbloccare la situazione è stato addirittura una bandiera del club londinese come Peter Cech che è dovuto andare a parlare faccia a faccia con i supporters della propria squadra.