La stanza odorava di pulito, come dev’essere per una stanza d’ospedale.
Quando entrai, Roberto era intento a richiudere il barattolino dell’omogeneizzato e a liberare il tavolino da letto col quale aveva tentato ancora una volta di spingere il padre a ingurgitare un mezzo cucchiaino almeno. Si avvicinò per salutarmi e quasi contemporaneamente gli si rivolse per annunciargli la mia presenza, con la voce alta e il tono ostentatamente sorridente, come si fa in questi casi con i malati, ma con l’aria di chi non si aspetta una risposta.
Mi avvicinai anch’io, in piedi dall’altra parte del letto.
Era quello di sempre, a parte la smorfia sul lato sinistro della bocca. Meno male che gli avevano fatto la barba, sarebbe stato troppo diverso dal solito sennò.
Come possono passare per la mente interi scaffali di ricordi ordinati e puliti come le confezioni del supermercato, il tutto solo nei pochi secondi che stetti zitto?
Eppure passarono tutti, in quei pochi secondi.
Innanzitutto, il racconto che mi avevano fatto i miei del mio battesimo.
Sono nato nell’anno santo, il 1950, quando le paure della guerra si erano stemperate in un principio timido di benessere che altro non era se non la possibilità riacquisita dopo mesi o anni di avere di nuovo la pasta e il pane a tavola, il quaderno per la scuola dei figli più grandi che già ci andavano, la radio che si ascoltava ormai liberamente e allegramente e qualche altra cosa ancora.
Era anche la possibilità di fare, nel cortile del palazzo, un rinfresco di taralli e vino per il battesimo dell’ultimo nato. Così fu per me, l’ultimo dei figli e l’unico ad avere questo privilegio. Privilegio dicevano i miei, anche se mi chiedevo dove fosse il privilegio visto che la festa era per me ed io non ero in grado di capire quello che succedeva. Alla festa nel cortile suonò lui, Giggino, con il suo sassofono e il suo clarinetto. Suonava tutto sommato in mio onore, e per me fu la prima di una lunga serie di occasioni, tutte perdute, per ascoltare la sua musica.
Già allora viaggiava. L’ho conosciuto da bambino così, come il primo dei due cugini che viaggiavano. L’altro, Tonino, s’imbarcava ripetutamente su petroliere e bananiere come sottufficiale meccanico di bordo. Da bambino ero ammirato di questi due cugini, tanto che di uno di essi, Tonino, feci il protagonista di un tema in prima media. Quando erano a terra non mancava la visita agli zii, e uno raccontava di Cina e d’Australia, l’altro, Giggino appunto, di Tenerife, di Beirut e di Turchia, ed era per noi quello più affascinante perché raccontava stralci di vita in crociera, dove – diceva – chi suonava doveva saper suonare tutto, dalla canzone napoletana a quella melodica italiana, al jazz, alla musica classica, all’opera lirica. Apparentemente e furbamente distratti, noi bambini ascoltavamo anche quando raccontava delle donne che “portava in cabina”.
Poi Giggino si sposò. Anche il suo matrimonio sapeva di eccezionale: la moglie spagnola, sposata in Turchia, il primo figlio nato lì, in Turchia. E il nostro scherzare su quel bambino, di tre paesi insieme, turco spagnolo e italiano: che festa di mescolanze di nazionalità, di lingue, di origini!
Resta tra le immagini più belle quella di Roberto che, quando ci vennero a trovare la prima volta tutti e tre, camminava dritto dritto sotto il tavolo: piccolo com’era camminava già, ma la sua modesta altezza gli consentiva di starci in piedi, sotto il nostro tavolo. E quale fu la mia meraviglia quando, temendo che urtasse, feci per prenderlo ma mi accorsi che non urtava!
La nostra vita intanto procedeva, e evidentemente anche la sua con la nascita del secondo figlio e i suoi ritorni periodici dagli imbarchi, dove continuava a suonare ed affinava le sue tecniche col clarinetto: sempre da autodidatta, perché alle spalle aveva solo un periodo di studi con un maestro privato ma non aveva mai potuto iscriversi al Conservatorio, né prima, quando doveva cercare lavoro, né poi, quando doveva mantenere la famiglia.
Eppure Giggino era un artista. Io ho sempre pensato che se avesse potuto sarebbe diventato famoso. Aveva la curiosità, quella molla che fa scattare lo studio, e si provava in tutte le arti che incontrava per caso. Una volta mi parlò di un racconto che aveva scritto e che voleva pubblicare, rinunciandoci dopo aver sperimentato le pretese di una casa editrice; a casa nostra per anni è stato appeso al muro un cartone incorniciato nel quale scherzavano fra loro precisissimi arzigogoli geometrici fatti con la china.
Quando, verso i miei 18 anni che compivo nel 1968, volli imparare a suonare la chitarra seguendo la moda dei miei amici, venne una volta ad ascoltarmi col mio gruppo e poi, su mia insistente richiesta di un suo giudizio, con delicatezza mi fece capire che non era un gioco facile, che suonare richiedeva una predisposizione e una volontà che dovetti poi ammettere fra me e me di non possedere.
Le sue visite continuarono sempre nel tempo, anche a casa mia dopo la morte dei miei genitori.
Gli facevo leggere alcune mie timide poesie, e lui le chiedeva per studiarle e farle diventare canzoni. Ne abbiamo fatte quattro o cinque di canzoni, e lui le depositava per i diritti d’autore, incitandomi ad iscrivermi anch’io alla SIAE, cosa che non ho mai voluto fare perché mi sembravano poca cosa.
Musicò anche alcune fra le mie traduzioni dialettali da Catullo, lui che non conosceva Catullo ma che lo comprendeva benissimo attraverso quelle mie versioni. Ha creduto più lui in me che io.
Quando fra un viaggio e l’altro veniva a farmi visita, spesso mi portava delle modeste somme, che accettavo riluttante solo dopo molte sue insistenze, e che erano la metà dei proventi delle sue canzoni scritte su testi miei e che aveva fatto mettere in programmazione in vari locali da amici che aveva in Sicilia, in Campania e non so dove altro ancora.
E poi i figli grandi, lui nonno, e, fedele a se stesso, nonno civico, come mi raccontò, che guidava i bambini ad attraversare la strada la mattina. Ecco, il volontariato era il suo vero destino in quella vecchiaia che arrivò senza che ce ne accorgessimo, vitale e giovane com’era. Ed ora la notizia, che stava male…
Tutto questo, incredibilmente, durò tre o quattro secondi al massimo, il tempo di accostare la mia faccia alla sua per dirgli: “Giggì, come va?”, domanda che ne nascondeva un’altra, quella vera: -Mi hai riconosciuto?
Non reagiva agli stimoli, diceva Roberto. Non pareva che riconoscesse nessuno, o se riconosceva non lo dava a vedere.
Alla mia domanda, però, aprì il lato sano della bocca in un sorriso.
Gli sorrisi anch’io, dissi ancora qualcosa, poi, di là, ascoltai da Roberto il racconto dettagliato del suo calvario. Poi me ne andai, con la contentezza di non averlo perduto. Ancora no.
Foto di Lia Aurioso per Cinque Colonne Magazine