Dopo una prolungata cecità, può il cervello essere di nuovo in grado di elaborare i segnali visivi? Un nuovo studio appena pubblicato sulla rivista Plos Biology e condotto in collaborazione tra il team di Università di Pisa, Fondazione Stella Maris e Istituto di neuroscienze del Cnr, coordinato dalla professoressa Maria Concetta Morrone, e il team di Oculistica dell’Azienda Ospedaliera-Universitaria di Careggi e dell’Università di Firenze, guidato dal professor Stanislao Rizzo, ha indagato quest’aspetto studiando un gruppo di pazienti ciechi affetti da retinite pigmentosa che sono stati sottoposti all’impianto di una protesi retinica.
“La letteratura scientifica ha ormai dimostrato che dopo anni di cecità il cervello umano si ‘riorganizza’ e le aree corticali un tempo dedicate a elaborare segnali visivi, essendo ormai inattivate, assolvono nuove funzioni come ad esempio l’elaborazione di informazioni tattili o uditive”, spiega Elisa Castaldi, primo autore dello studio, “i dati ottenuti da questo gruppo di pazienti dimostrano che questo processo è in parte reversibile e che si può fare in modo che le aree che una volta erano visive tornino a svolgere la loro funzione originaria, sebbene il nuovo segnale visivo sia molto diverso e molto distorto rispetto a quello originale“.
Nello studio sono state misurate le risposte comportamentali e le attivazioni cerebrali con metodi di risonanza magnetica funzionale prima e dopo l’impianto della protesi. Il sistema di neuro-stimolazione cattura tramite una telecamera montata sugli occhiali del paziente immagini del mondo esterno, che poi elaborate e compresse vengono convertite in segnali elettrici e trasmesse, tramite un sistema di bobine a comunicazione wireless, a degli elettrodi impiantati che stimolano gli assoni delle cellule gangliari della retina. I pazienti imparano a utilizzare la protesi e riescono nuovamente a riconoscere stimoli visivi e durante questa lunga fase di apprendimento il cervello cambia e lentamente torna a essere attivato da stimoli visivi. I risultati dello studio dimostrano che, dopo la protesizzazione, c’è un aumento di attività cerebrale misurata con la risonanza magnetica e che tale aumento è più forte nei pazienti che si sottopongono a un training più intenso.
“È importante tenere presente“, continua Elisa Castaldi, “che questi cambiamenti avvengono nell’arco di svariati mesi e che c’è una correlazione tra la quantità di esercizi riabilitativi effettuati dal paziente, il cambiamento cerebrale e la capacità di utilizzare il nuovo strumento. È come se il cervello dovesse imparare a vedere di nuovo“.
“Questi dati dimostrano che c’è una grande plasticità nel cervello non solo durante l’infanzia, ma anche in età adulta“, aggiungono Maria Concetta Morrone dell’Università di Pisa e Guido Cicchini dell’Istituto di neuroscienze del Cnr, “inoltre è molto importante aver osservato che essa non sia limitata alla corteccia, ma anche a strutture sottocorticali“.
“Oltre 40 milioni di persone al mondo soffrono di cecità e in molti casi la causa è una lenta e progressiva degenerazione retinica, come nella retinite pigmentosa, una malattia retinica ereditaria che porta gradualmente alla cecità“, specifica il professor Stanislao Rizzo, “recentemente, si sono aperte nuove speranze per queste gravi malattie degenerative grazie alla realizzazione di nuove sofisticate protesi retiniche e di elementi fotosensibili che mirano a sostituire la funzionalità della retina e a stimolare di nuovo il cervello con segnali visivi. Comprendere il potenziale plastico del cervello adulto è fondamentale per migliorare e ottimizzare le future protesi retiniche”.