“La mia generazione ha perso”, cantava più di vent’anni fa Giorgio Gaber. La sua generazione era la nostra, di noi che oggi abbiamo superato i settanta e che, in un modo o nell’altro – più o meno intellettualizzati, più o meno partecipi ai cortei di protesta, comunisti atei o cattolici per il socialismo (non ancora “cattocomunisti”), con diverse basi di formazione specifica (proletari o borghesi, tanto per intenderci) – eravamo studenti negli anni Sessanta e Settanta del secolo breve. Avevamo, nella varietà delle posizioni, almeno un punto in comune: eravamo convinti che avremmo costruito un “mondo migliore”.
Leggere Canto degli speroni rossi di Grazia Fresu (Edigrafema 2021, 205 p., 13 €) per noi significa tuffarci nel nostro passato, rivivere le nostre folli convinzioni di allora, guardare da fuori quello che eravamo e volevamo.
Questo tuffo nel passato che ci propone Grazia Fresu è peraltro una vera full immersion, visto che il testo (come apprendiamo dall’ampia prefazione di Enzo Montano e da un’intervista alla scrittrice) non è stato scritto oggi, ma all’epoca dei fatti dall’autrice allora ventiduenne.
Alla prima lettura colpisce subito lo stile, poetico e metaforico, del romanzo, che non a caso è intitolato “Canto”. Chi conosce le successive prove poetiche di Grazia Fresu sa che sarebbe rimasta fedele alla scrittura poetica più che prosastica.
La storia è narrata “a caldo” dal protagonista, che si rivolge quasi sempre al fratello di due anni più giovane, in un dialogo fitto con un “tu” in cui si rispecchia un alter ego dell’autrice stessa, come rivela qualche connotazione caratteriale (“la tua mitezza, il mio ardore”), anche al di là di certi particolari riferibili alla biografia di Grazia Fresu e della sua sorella Anna, quali la Sardegna e gli studi a Roma. Il romanzo esprime dunque il punto di vista di uno studente colto, le sue istanze esistenziali prima ancora che sociali, tra aspirazioni di giustizia e ansie di autorealizzazione umana individuale.
Si tratta di un romanzo di formazione, dall’adolescenza alla conquistata maturità, attraverso la perdita dell’innocenza, che non sfocia però in una “maturità” disincantata e cinica (come spesso nei romanzi francesi dell’Ottocento), ma piuttosto in una nuova innocenza ritrovata, che persisterà (è questo il messaggio conclusivo dell’opera) come pilastro portante nel resto della vita adulta.
Il percorso si svolge in tre tappe, che sono le tre parti in cui si articola il libro: Prologo, Riva sinistra, Epilogo. Le tre parti sono strutturate in capitoli non numerati ma calibrati con una precisione certamente non casuale (13 capitoli ciascuno il Prologo e l’Epilogo, 26 la più corposa parte centrale).
Il prologo contiene i primi anni della formazione in Sardegna, le prime suggestioni (attraverso un’enigmatica figura, Rea), il primo strappo ideologico (attraverso letture, soprattutto l’Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam), un iniziale ma non superficiale interesse per il teatro, ancora in bilico fra l’infantile gusto di camuffarsi e “il senso di un gesto esemplare” che nasconde “tracce di un’ambiguità un po’ malvagia” nel gioco serio del teatro come vita.
La parte centrale, intitolata Riva sinistra, è, come dicevamo, quella più corposa. Vi sono tutti gli elementi dell’epopea del Sessantotto: le affollate e rumorose assemblee; le occupazioni degli edifici: le scuole, le università e le fabbriche, e quindi l’epica idea di unire la lotta degli studenti con quella degli operai; le manifestazioni, prima di protesta generale contro il “regime”, poi più specifiche, man mano che si concretizzava la reazione, contro episodi singoli quali l’arresto di Valpreda e l’omicidio di Pinelli; poi l’illusione della violenza contro la violenza di Stato e le repressioni nelle piazze a colpi di manganello. E poi l’amore, e Luisa che canta le canzoni che Marco compone, e il pubblico che investe il privato: Luisa è ferita, il fratello minore della voce narrante viene arrestato.
Tutto si svolge però nel romanzo attraverso la riflessione, con numerose citazioni più o meno esplicite (da Brecht a Rosa Luxemburg, a Jean Genet e ad altri), con l’ansia intellettuale che fa da sfondo a tutte le avventure: “Capire mi perseguita, pure è l’unica persecuzione che mi salvi da una solitudine aristocratica e dannosa”.
E poi ancora una figura enigmatica, Monique, un’artista algerina, fotografa di una realtà sorella, quella delle rivolte che avevano portato, sanguinosamente, all’indipendenza dell’Algeria dalla Francia: una realtà ancora più drammatica della nostra realtà di studenti e operai impegnati nella lotta per un mondo migliore. E infine, fra spettacoli in piazza, dibattiti e manifestazioni, lo scontro, con il ferimento di Luisa e l’arresto di Marco, ci traghetta nella parte conclusiva, l’Epilogo.
La parte finale è un ritorno alla terra natia, come una sorta di pausa di riflessione. Non si tratta (o non solo) di un leccarsi le ferite: le mani ingessate di Luisa e il ritorno di Marco dalla galera sono un’occasione per rivedere il passato – sia le origini isolane che le avventure dell’esilio – ed esserne consapevolmente orgogliosi.
La sconfitta diventa piedistallo per la costruzione: “Ascoltandoti ho intravisto un approdo diverso da un’avventura che ha perso il suo scopo”. E così torna l’iniziativa.
Torna il teatro, con uno spettacolo di marionette e con le vecchie e nuove ballate di Marco. Torna Rea, che canta le canzoni composte da Marco. Torna (soprattutto) il padre, per dimostrare che anche in presenza di una lontananza ideologica lui saprà fare il padre; e così, per il giovane protagonista, “andargli incontro diventa giusto, di colpo”. Andargli incontro, però, con la consapevolezza che lo strappo consumato non potrà rimarginarsi, solo potrà essere velato da una nuova gentilezza di modi, più ferma e definitiva che le passate lotte fra le due generazioni. Questo perché il ritorno del padre si salda con il ritorno all’isola, con la riscoperta di poeti sardi, con il ritrovamento del teatro e, soprattutto, della gente sarda. Si salda, in altre parole, con la ritrovata coscienza delle proprie origini (Origini, appunto, si intitola emblematicamente l’ultimo capitolo). E torna, in questa saldatura, l’azione politica, stavolta per appoggiare i pastori che protestano per un ingiusto comportamento delle autorità nei loro confronti.
Insomma, il presente si salda a tutti i livelli – dall’ideologico all’affettivo al pratico – con il passato; e un viaggio all’interno dell’isola natia diventa “la conoscenza” che “viene a sedersi tra di noi”, collegandosi anche con gli “ottanta cavalieri” che in un’opera del poeta sardo Pietro Mura “scendono dal Sopramonte” a portare “la canzone degli speroni rossi”, il “canto” (cui allude il titolo del romanzo della Fresu) della rivolta e della salvezza, della disperazione e della speranza.
E con la speranza termina il libro, con questo finale che rivela il motivo per cui uno scritto di molti anni fa può rivendicare la sua attualità:
“E sento che non c’è fine in questa storia che possa essere scritta, perché il tempo del nostro vissuto è quello della parola dolorosa e ardita che abbiamo saputo darci e che continuiamo a tenerci dentro come una speranza ostinata e più forte”.
E allora ecco l’eredità del Sessantotto: la speranza. Una speranza che riesce a perdurare anche oggi che i giovani non scendono più in piazza per le guerre nel mondo (delle quali peraltro non abbiamo spesso notizia, salvo che avvengano vicine a noi). Perdura nella coscienza di noi settantenni, in quello (a volte troppo poco, è vero) che siamo riusciti a trasmettere ai nostri figli, ma soprattutto perdura nelle organizzazioni umanitarie che prosperano a dispetto dei tristi venti di guerra che imperversano nel nostro addormentato occidente.