Epiche pagine di calcio sono state scritte e consumate da quando nel lontano 1898 si svolse il primo massimo torneo di calcio italiano, prima dell’attuale “girone unico” (Serie A, 1929), con vittoria del Genoa sull’Internazionale di Torino (2-1 d.t.s.). Quei pionieri oggi appartengono alla storia in bianco e nero, un po’ ingiallita dal tempo che è passato inesorabile. Gesta diverse da quelle odierne, moduli e tattiche diversi, preparazioni diverse e soprattutto interessi economici diversi, in formazioni spesso autogestite per amore dello sport. Ma sui campi, in terra battuta, più o meno improvvisati, e con recinzioni spesso sostituite da una catena di tifosi assembrati ai bordi, senza creare il che minimo incidente, si buttava l’anima come in una giornata di lavoro in una cava sotto il sole cocente.
I calciatori erano dei veri stacanovisti, nulla e nessuno li distoglieva dal loro intento, e a volte vedevi nello stesso incontro alcuni con la testa fasciata come un turbante ancora sgorgante di sangue, ma restavano lì a difendere i propri colori, a sacrificarsi per la loro gioia e quella dei tifosi che gli tributavano onori e gloria come si fa per gli eroi, correndo dietro ad un pallone non ancora perfezionato, il quale quando s’inzuppava d’acqua sotto una scrosciante acqua, diventava un macigno. Tuttavia il vero calcio federale, poiché questo era ancora considerato sottoprodotto dello sport ginnico (anche se a queste società sportive va il merito della sua diffusione) doveva consolidarsi più avanti (Mario Bocchio, La sfida tra Genoa e Alessandria ci riporta all’epoca primordiale del calcio italiano)
Ed è per questo che il calcio (e lo sport in genere) di quei tempi pionieristici è paragonato a una pagina poetica che elogiava soprattutto quei ruoli fatti di sacrifici, come il ruolo del mediano, paragonabile ad un gregario del ciclismo, basato sulla fatica e sovente vestito di anonimato; o quei ruoli fatti di solitudine, come quello del portiere, investito da una responsabilità incondizionata: quella di difendere la propria porta come si difende la propria Patria dall’invasione del nemico. Tutto questo avveniva sul campo. Ma terminata la partita, tutti ad abbracciarsi e a darsi la mano come dei veri gentiluomini.
D’altronde se lo sport, e in particolare il calcio, ha occupato da sempre splendide pagine in alcuni volumi di poesia di grandi autori, che hanno reso il calcio un’arte sensibilmente alta e protervia di umanità, una cultura non soltanto sportiva ma sociale e di vita, vorrà pur dire qualcosa: dunque, non è azzardato sostenere che sport e poesia allietano gli animi e preparano (nel fisico e nella mente) gli uomini ad accogliere l’altro da sé, a vivere in sintonia col proprio mondo. Mi piace, ora citare, a sostegno di quando vado dicendo, una poesia di Saba, che ritengo esemplare. Si intitola Squadra paesana: «Anch’io tra i molti vi saluto, rosso- | alabardati, | sputati | dalla terra natia, da tutto un| popolo |amati. | Trepido seguo il vostro gioco. | Ignari | esprimete con quello antiche | cose | meravigliose | sopra il verde tappeto, all’aria, ai chiari | soli d’inverno. | | Le | angoscie | che imbiancano i capelli all’improvviso, | sono da voi così lontane! La | gloria | vi dà un sorriso | fugace: il meglio onde disponga. Abbracci | corrono tra di voi, gesti giulivi. | | Giovani siete, per la madre vivi; | vi porta il vento a sua difesa. | V’ama | anche per questo il poeta, dagli altri | diversamente ? ugualmente commosso».
Il gioco del calcio (ma lo sport in genere) diventa linguaggio attraverso i poeti e gli scrittori, i segni che ci trasmette sono fonemi del linguaggio parlato: «Il gioco del calcio è lo sport nazionale per eccellenza non solo in Italia; l’unico che unisce in un comune sentimento di entusiasmo e partecipazione tutte le fasce sociali e che riesce a tenere desta l’attenzione ben prima e ben dopo l’ora e mezza di durata della partita. […] l’eccitazione del pubblico si mantiene sempre a un livello molto alto e la tensione quasi mai si acquieta con la fine del gioco ma lo trascende e ha modo di scaricarsi nelle strade cittadine, coinvolgendo anche chi l’incontro agonistico non l’ha seguito. […] si reinventa quotidianamente nelle migliaia di campi sportivi più o meno improvvisati, nelle scuole e nei cortili delle case, ovunque si ritrovino un gruppo di ragazzi intorno a un pallone. Registrare questo fenomeno, con spirito di partecipazione, con la serena ottica dell’interesse culturale, con l’acuta indagine della curiosità è la sfida che hanno lanciato, nel tempo, giornalisti, fotografi, sociologi, filosofi, pittori, scultori e anche letterati» (Pier Paolo Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, Vol. II, Meridiani Mondadori, Milano 1999).
Secondo il filosofo Jean-Paul Sartre, il calcio è addirittura una metafora della vita; invece per il filosofo Sergio Givone la vita è una metafora del calcio; Eugenio Montale sogna «che un giorno nessuno farà più gol in tutto il mondo»; anche il poeta inglese Thomas Stearnes Eliot sostiene il binomio calcio-cultura: «il calcio è un elemento fondamentale della cultura contemporanea». Addirittura per Eduardo Galeano, lo scrittore uruguaiano che, unitamente all’argentino Osvaldo Soriano, ha trasformato il calcio in una moderna forma epica, «il calcio continua a voler essere l’arte dell’imprevisto».
Se solo un poco, un poco così, scuotesse gli animi dei dirigenti e dei calciatori odierni, il calcio potrebbe scrivere altre pagine epiche, esclusivamente per amore e passione per lo sport.