Che cosa vi può dire del ’68 uno che in quell’anno non era ancora nato? Uno che è nato da genitori che hanno vissuto e creduto nei valori di quell’epoca ma che è poi cresciuto negli anni ’80 della Milano da bere e da pere, degli yuppies e dei paninari, nei ’90 del berlusconismo imperante e vive adesso in un’epoca in cui le conquiste politiche del ’68 e del decennio seguente si stanno sgretolando sotto l’egemonia di un capitalismo sempre più aggressivo, globale e senza regole?
Io che posso, essendo nato nel ’75, vedere le cose soltanto col senno di poi senza averle potute vedere col senno del prima e del durante, guardando gente come Giuliano Ferrara e Paolo Liguori (ex Lotta Continua ambedue ai tempi) essere passati senza remora alcuna dall’altra parte della barricata, posso immaginare che per alcuni, forse per molti, fu una moda passeggera. Per altri invece fu certamente un momento storico che cambiò in modo indelebile la lente attraverso la quale guardare il mondo. Un mondo di fratellanza, di uguaglianza, di ribellione al militarismo, alle convenzioni sociali borghesi, alle gerarchie. Un mondo che aveva come colonna sonora Hendrix, Dylan, i Beatles, gli Stones, Janis Joplin, i Doors…
Fu senza dubbio un momento di grande spaccatura inter-generazionale. I giovani figli della borghesia italiana, attratti dal maggio francese e dal movimento antimilitarista americano contro il governo Nixon e il perpetrarsi della guerra in Vietnam, videro i loro coetanei mettere in discussione lo stile di vita e i valori dei genitori e decisero di fare altrettanto. Gli studenti occupavano le Università in nome di un diritto allo studio esteso a tutti e di un nuovo rapporto studenti-professori più democratico e meno autoritario.
La spinta iniziale data dagli studenti universitari si estese poi anche al movimento operaio e per la prima volta si videro manifestare insieme, in Italia, studenti e operai. Gli esiti delle lotte operaie appoggiate dal movimento studentesco furono decisamente buoni per la classe lavoratrice. Gli operai ottennero vittorie sindacali mai sperate prima e nel 1970 venne siglato lo Statuto dei Lavoratori, un documento di enorme importanza per le tutele e i diritti dei lavoratori, quello stesso Statuto il cui articolo 18 è stato poi rettificato a vantaggio dei datori di lavoro, in questi ultimi anni, prima dalla riforma Fornero e poi dal Jobs Act di Renzi.
Il movimento in Italia durò per tutti gli anni ’70, radicalizzandosi politicamente sia a sinistra che a destra e dando il via ai cosiddetti anni di piombo, durante i quali sparirono quasi del tutto le idee libertarie del flower power e il pacifismo hippie degli inizi e – mentre la destra eversiva piazzava bombe in luoghi affollati con l’appoggio dei Servizi Segreti deviati per innescare la strategia del terrore – il movimento a sinistra si radicalizzò sempre più fino alla lotta armata, portata avanti da gruppetti come Prima Linea o le Brigate Rosse, militarizzati e indottrinati – se da se stessi o da elementi infiltrati da qualcuno a cui facevano comodo ancora non è chiaro e chissà se lo sarà mai – al punto di compiere omicidi in nome di una fantomatica rivoluzione che non sarebbe mai avvenuta e se fosse avvenuta non avrebbe certo avuto il consenso che poteva avere la colorata e allegra rivolta del primo movimento pre-ideologizzato che però, a quanto ne so, in Italia durò molto poco: Lotta Continua nasce nel 1969, così come la scissione del gruppo fondatore del “Manifesto” che contesta da sinistra il Pci. Nel ’70 già si formano le Brigate Rosse. E lo spontaneismo iniziale del movimento venne presto sopraffatto dall’ideologia e da una progressiva escalation di violenza. Ci sono i primi morti per arma da fuoco durante le manifestazioni e i servizi d’ordine armati di spranghe all’interno degli atenei occupati. L’iniziale vento di rivoluzionario colore eterogeneo e per lo più pacifista viene scalzato da un’aria malsana e cupa che sa di paura, di fanatismo ideologico, di odio e di polvere da sparo.
Saranno proprio il crescendo di violenza delle frange più estreme e l’omicidio di Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse nel ’78 a dare il colpo di grazia al consenso popolare che nonostante tutto ancora in parte aveva la sinistra extra-parlamentare, figlia del pensiero sessantottino, nelle fabbriche così come nelle Università, nel mondo dell’arte così come nel sottoproletariato. Moro fu ucciso per evitare il compromesso storico che doveva essere siglato tra la DC e il Partito Comunista di Berlinguer per tentare di governare insieme. L’ala più estrema del movimento vedeva quel gesto del PCI come un tradimento alla causa della Rivoluzione del Proletariato.
Credo che la lotta armata come forma rivoluzionaria possa ottenere il consenso del popolo soltanto in nazioni in cui la gente è alla fame e/o sotto un regime dittatoriale. Quella violenza che seguì il ’68 italiano possiamo leggerla solamente come un inasprirsi dell’odio ideologico ancora più che di classe, visto che buona parte dei componenti delle bande armate dell’estrema sinistra non veniva dal proletariato bensì dalla borghesia, la stessa classe sociale che combatteva. Dove era andata a finire “la fantasia al potere”? In un bagno di sangue.
“Le strade sono piene di una rabbia che ogni giorno urla più forte. Son caduti i fiori, hanno lasciato solo simboli di morte” cantava Francesco Guccini nel 1974, vedendo/prevedendo ciò che era in corso e che stava per avvenire.
Se posso aggiungere un mio parere personale, penso che in ogni caso, in piena guerra fredda, né l’URSS né gli USA avrebbero permesso che una delle loro nazioni-satellite passasse dall’altra parte della Cortina. La repressione coi carri armati russi della primavera di Praga e il ’68 messicano che si concluse con lo sterminio di 100 manifestanti durante il massacro di Tlatelolco a Città del Messico ne sono la triste testimonianza. Gli uni combattevano per la libertà di opinione in un Paese comunista. Gli altri per una maggiore giustizia sociale in un Paese capitalista. Forse in Italia il compromesso DC-PCI non sarebbe poi stato quella cosa terribile paventata dalle BR, visto come sono andate poi le cose nei 40 anni successivi. Questo sempre detto da uno che può, per questioni anagrafiche, ragionare esclusivamente col senno di poi.
Secondo Marcuse, nel suo “Uomo a una dimensione”, ogni forma di contro-cultura e di emancipazione sociale che la società civile partorisce in seno al capitalismo, il mercato la inghiotte, la priva della sua forza rivoluzionaria e la risputa sotto forma di prodotto commerciabile.
Questo per me è ciò che ha fatto, almeno in parte, il berlusconismo con l’emancipazione femminile nata nel ’68: la normalizzazione, anzi l’incentivo alle donne a prostituirsi ai potenti per ottenere favori. Ovviamente molte delle istanze del femminismo hanno in realtà scardinato la condizione femminile pre-sessantottina e la condizione femminile è per molti aspetti migliorata e si è quasi del tutto parificata a quella maschile a livello di diritti, anche se ancora molto ci sarebbe da fare. Il libero mercato e la cultura berlusconiana in particolare hanno però spinto la mercificazione o l’esposizione del corpo femminile come mezzo più semplice attraverso cui ottenere denaro o successo. Il reclamo della donna per ottenere parità di diritti ridotto al ballare in abiti discinti di fronte alle telecamere o a partecipare a festini con uomini potenti. “L’utero è mio e lo gestisco io”. Nel mondo neo-liberista è questa la libertà di usare il proprio corpo proposta come la migliore alle donne giovani e avvenenti: come un qualunque altro bene di scambio da cui trarre profitto economico e salire nella scala sociale.
La stessa cosa vale per la cultura hippie. Finito il tempo in cui questa poteva in qualche modo sovvertire e mettere in discussione le regole del capitalismo essa è stata svuotata del suo contenuto rivoluzionario e riciclata in abiti e accessori che ogni tot anni tornano di moda e vengono prodotti da stilisti famosi per essere venduti a prezzi proibitivi e indossati come prèt-a-porter da mogli e figlie di industriali e banchieri: “Oh, cara… Questa camicia indiana, il pendaglio col simbolo della pace e il pantalone a zampa sono di-vi-ni. Sembri una vera fricchettona sessantottina. Gradisci dello champagne?”.
Per ciò che concerne il mondo del lavoro, in assenza dei diritti conquistati dopo il ’68 e un po’ alla volta sottratti dalle politiche liberiste praticate dagli anni ’80 in avanti, il lavoratore perde mano a mano dignità, deve scendere a compromessi sempre più umilianti ritornando alle condizioni pre-sessantotto e in alcuni casi – benchè non sia permesso dalla legge – a condizioni simili allo schiavismo. Mi riferisco, in quest’ultimo caso, ad esempio alla raccolta degli agrumi al sud e delle condizioni miserevoli in cui vivono i braccianti – la pressochè totalità immigrati o ai laboratori tessili clandestini gestiti dai cinesi o dalla malavita italiana. Ma la legge stessa prevede contratti che garantiscono la flessibilità di assunzioni e licenziamenti per permettere alle aziende di stare sul mercato. La forza-lavoro non sono esseri umani ma merce da noleggiare e scaricare quando al datore di lavoro fa comodo: la dignità umana – in qualche modo per anni garantita da quello che fu lo Statuto dei Lavoratori – torna in secondo piano rispetto alla volontà del mercato e alla logica del profitto.
Ma amo credere che non tutto sia perduto: alcuni valori come l’uguaglianza, la solidarietà e la necessità di combattere per un mondo migliore non moriranno mai. Molte conquiste a livello di diritti civili e di libertà di espressione che oggi abbiamo sono il frutto delle lotte di quegli anni. I valori trasmessi dai ’68 nazionali si sono adattati al nuovo mondo e al nuovo nemico: non più uno Stato sovrano che adotta il sistema capitalistico ma un capitalismo mobile, mondiale e in apparenza indistruttibile, senza più la controparte del modello sovietico a cui fare riferimento come a un’alternativa. Il movimento cosiddetto no-global – neo-sessantotto degli anni ’90 e 2000 – ha subito un duro colpo dato dalla violenza squadrista delle forze dell’ordine durante la manifestazione del G8 di Genova, quando il neo-liberismo ha mostrato il proprio volto. Ma esiste ancora, è attivo, comunica e coopera a livello internazionale sotto forma di organizzazioni non governative e di tantissimi piccoli e grandi movimenti, gruppi, collettivi che si occupano di diritti civili, ecologia, cultura e che se riuscisse a organizzarsi in un movimento politico internazionale potrebbe esplodere da un momento all’altro portando all’umanità un sistema sociale ed economico alternativo al liberismo ma ben diverso da quello vetero-comunista. E questo è un bene. Perché l’alternativa, parafrasando il titolo del film di Ken Loach, non è un Paese che ti dà il pane ma ti nega le rose: l’alternativa è un mondo in cui tutti possano avere il pane e le rose.