Sempre sperando di non essere noiosi, ci accingiamo a parlare dei verbi regolari.
In napoletano, come in italiano, ci sono tre coniugazioni. Vediamo subito gli infiniti:
1. parlà (“parlare”)
2. vàttere (“battere”, “percuotere”)
veré (“vedere”),
3. capì (“capire”)
Come si vede, mentre nella I e nella III coniugazione l’infinito è sempre tronco (parlà, capì), nella II coniugazione lo è solo se nella sua forma intera aveva l’accento sulla penultima (veré da vedére), mentre se l’accento è sulla terzultima la forma appare intera (vàttere).
Si dà anche il caso di qualche verbo con forme della II e della III, come sentì e sèntere, vestì e vèstere e pochi altri.
Vi sono poi dei verbi che, come in italiano, così in napoletano aggiungono in alcuni tempi e/o in alcune persone il suffisso –sc- prima delle desinenze. Così il verbo fernì (“finire”): fernesco, fernisce, fernesce, fernimmo, fernite, fernésceno (“finisco”, “finisci”, “finisce”, “finiamo”, “finite”, “finiscono”).
I generale, i verbi che sono irregolari in italiano lo sono anche in napoletano, anche quando si differenziano persino nei temi. È il caso del verbo “andare”, in napoletano jì (dal latino ire). Pronunziamo in questo caso ì, ma ricordiamo che di norma la lettera j in napoletano va letta come la i di “aiuola”: così jamme, jate (“andiamo”, “andate”).
Per i modi e i tempi, rinunciando anche stavolta a dare degli specchietti completi (che si possono reperire facilmente) facciamo il punto su alcune caratteristiche del nostro idioma rispetto all’italiano.
- Nell’indicativo, non usiamo quasi mai il futuro (anche se c’è: parlarraggio, parlarraje, parlarrà), secondo una tendenza che ritroviamo nell’italiano parlato: “Domani vengo da te” per “Domani verrò da te”, in napoletano Dimane vengo addu te;
- il passato remoto si trova nella forma in -aje per la I coniugazione e in -ette per la II e la III: cantaje, cantaste, cantaje; verette, veriste, verette; sentette, sentiste, sentette;
- per il congiuntivo si usa spesso l’imperfetto, mentre il presente, che anche nell’italiano parlato tende a scomparire, è di fatto ormai sostituito nel napoletano dal presente indicativo (come abbiamo detto già nella lezione scorsa). Tracce di congiuntivo presente rimangono nel dialetto di oggi come residui cristallizzati del passato: abbiamo parlato, nella lezione scorsa, di arrassusia, ma va citato anche il saluto augurale (molto usato, e ripreso simpaticamente dal nostro cardinale Sepe) ’A Maronna t’accumpagna, che non possiamo non sentire come un congiuntivo desiderativo;
- il condizionale è oggi poco usato (parlarrìa, parlarrisse, parlarrìa) e spesso è sostituito dall’imperfetto congiuntivo: Si parlasse cchiù ppoco fosse meglio (anche, ma ormai raro, sarria meglio) “Se parlassi di meno sarebbe meglio”;
- per il participio passato, oltre alle forme in –ato e –ito, simili all’italiano (parlato, capito), è molto diffusa la forma in –uto per la II e la III coniugazione: aggio fernuto (da fernì “finire”), songo jiùto o so’ gghiuto (da jì “andare”).
Inoltre sono caratteristiche, e alcune ancora molto usate, le forme “forti” del participio passato, come vìppeto per vevuto (“bevuto”), visto per veruto (“visto” e “veduto” anche in italiano), chiuòppeto (tipico invero dei dialetti irpini, ma ancora presente talvolta anche a Napoli) per chiuvùto (“piovuto”), perzo per perduto (“perso” e “perduto” anche in italiano).
E qui ci fermiamo, per ora. Ce verimmo dummeneca che vvene, e ca ’a Maronna v’accumpagna!