Avremmo voluto parlare di nomi e aggettivi, ma lo faremo un’altra volta. Non possiamo infatti trascurare alcuni verbi “irregolari”. E cominciamo subito, segnalando soprattutto le differenze con l’italiano.
• Alcuni verbi alla I persona singolare del presente hanno un’uscita in –ngo che è quasi sconosciuta all’italiano e che a volte è un’aggiunta, altre volte è il frutto di una diversa trasformazione della parola rispetto all’italiano. Qualcuno l’abbiamo già visto, qualche altro elenchiamo qui:
so’ e songo (“sono”), sto e stongo (“sto”), do e dongo (“do”)
appenno e appengo (“appendo”), scenno e scengo (“scendo”), vénno e véngo (“vendo”, da non confondere con vèngo da venì )
• Dà e stà (“dare” e “stare”) seguono in alcuni tempi la I coniugazione e in altri la II (precisamente nell’indicativo imperfetto dévo e stévo (it. “davo”, “stavo”), nel passato remoto dette e stette (it. “diedi” e “detti”, “stetti”) e nell’imperfetto congiuntivo desse e stesse (qui uguale all’italiano “dessi” e “stessi”)
• Vulé e puté sono depositari degli ultimi congiuntivi presenti da noi adoperati (insieme a arrassusia e a ’A Maronna t’accumpagna). Pensiamo alle comuni frasi Ddio nun voglia! (trascrizione fedele della corrispondente frase italiana) e puozze schiattà (o, peggio, puozze sculà, ovvero fare la fine dei cadaveri che anticamente venivano messi in posizione seduta su sedili forati affinché potessero “scolare”, cioè perdere i liquidi e seccarsi onde consentire poi la sepoltura)
• Alcuni verbi alla prima singolare del presente indicativo escono in –co, come vaco (“vado”), veco (“vedo”), vòmmeco (“vomito”)
• Il verbo “andare” in italiano ha le due radici and- (forse dal latino tardo ambitare) e vad- (dal latino parlato vado). In napoletano la radice and- è sostituita da j- (dal latino ire): Perciò vaco, vaje, va, jammo, jate, vanno
• Il verbo “uscire” anche in italiano ha una variazione nel tema: uscire / esco. In napoletano al posto della u c’è una a: ascì. Per il resto la coniugazione è simile a quella dell’italiano (fatte salve le particolari variazioni della vocale della radice): esco, jésce, èsce, ascimmo, ascite, èsceno
Per farci perdonare la noia dell’elencazione di regolette, chiudiamo con un verbo di cui seguiremo non la forma, ma l’evoluzione del significato (dando qualche anticipo di storia delle parole, di cui ci occuperemo più in là). Ed ecco la curiosa storia del verbo parià.
Esso deriva da padiare, a sua volta dall’italiano antico “padire” e “patire” (forme connesse probabilmente al latino classico pati “soffrire”) che significava esattamente “digerire”. Certo è che anche nel “Convivio” di Dante si incontra una volta un “patire” con l’evidente significato di “digerire”, e che in napoletano esistono, anche se oggi quasi del tutto in disuso, termini quali ’a padiata (l’insieme degli intestini degli animali), ’o padio (la digestione), ’o padiaturo (lo stomaco, o anche il liquore digestivo).
E proprio il significato di “digerire” aveva, fino a qualche tempo fa, il nostro padià, diventato poi parià : spesso i nostri papà avevano l’abitudine di fare, per propiziare la digestione, una passeggiata oppure un sonnellino, in ogni caso qualcosa di gradevole. La passeggiata dopo pranzo era indicata col verbo parià.
Le ultime generazioni (i nostri figli) hanno ripreso il verbo (un po’ dimenticato dalla nostra generazione) ma ne hanno recepito solo l’aspetto della gradevolezza dell’attività intrapresa, perdendone l’aspetto di utilità (digestione).
Così oggi da un giovane (press’a poco dai trent’anni in giù) si sente dire che sta parianno unicamente nel senso che “si sta divertendo” con qualche attività più o meno ludica. È così che la lingua si trasforma!
E sperammo ca cu chello c’âmmo scritto ve site spassate (o, comme diceno ’e ggiuvene ’e mo, ca avite pariato). Ce vedimmo dummeneca che vvene.