È l’anno 1161, nella Cina settentrionale un uomo già cinquantenne sta scavando una grande fossa, tra il popolo desta molto curiosità, ma tuttavia l’uomo è già conosciuto come “il lunatico Wang”, una persona delusa dalla vita, che ha trascorso nell’effimeratezza, alla continua ricerca di una posizione sociale di rilievo, ricerca che non ha fatto altro che lasciargli un senso di vuoto che l’ha spinto verso l’abuso di alcol e alla depressione, ma quest’uomo cerca una rivincita personale, un forte cambiamento di rotta, dopo diversi incontri con uomini straordinari e figure misteriose, decide di dedicarsi alla coltivazione del Tao, verso un’intensa ricerca della sua reale natura interiore, per questo decide di costruire una grande fossa, che chiamerà la “tomba per far rivivere i morti”, dove deciderà di trascorrere tre anni della sua vita, concentrato in meditazioni e in pratiche alchemiche, mantenendo soltanto i minimi rapporti con il mondo esterno. Qui inizia la seconda vita di Wang Zhe, il patriarca dello Quanzhen, la più grande corrente monacale taoista.
Dopo aver trascorso tre anni nella “tomba per far rivivere i morti”, Wang Zhe ne trascorse altri quattro in una comunità eremitica taoista, dove visse in una capanna, che poi decise di bruciare per incamminarsi verso nuove città e trasmettere i suoi insegnamenti
Essere un allievo di Wang Zhe non era facile, ai suoi allievi più vicini richiedeva una dedizione totale alla coltivazione spirituale, solo così avrebbero potuto elevarsi dalla condizione del uomo comune, che i primi adepti Quanzhen apostrofavano come “marionetta” o “ossa che camminano”, ritenevano questo come intrappolato in una condizione dove si è preda della propria torbidezza emotiva e intellettuale, che porta inevitabilmente a una scarsa salute psicofisica. Per compiere l’elevazione spirituale e raggiungere quindi uno stato di immortalità dove regna la quiete e la pace interiore, dovevano abbandonare la loro vecchia vita, lasciando innumerevoli abitudini quotidiane, per entrare così in un regime monacale dove si rinunciava a:
Sovrastimolazione dei sensi
Consumo di alcol
Attività sessuale
Accumuli materiali
Impegni familiari e sociali
Ma i membri dello Quanzhen non sono soltanto tenuti ad abbandonare la loro vecchia condizione di uomo comune, ma devono quotidianamente dedicarsi a tecniche di coltivazione spirituale, atte a far compiere una trasformazione interiore, giungendo alla realizzazione della propria natura innata, ottenendo così una condizione di totale integrazione cosmologica. Spesso imitando il passato del loro patriarca, si impegnavano a praticare la meditazione e tecniche alchemiche per lunghi periodi e in totale ascetismo, rinunciando spesso anche alle ore da dedicare al sonno.
“Lasciare il mondo mondano non significa che il corpo si discosti.
Invece, si riferisce ad una condizione del cuore-mente. Il corpo è come la
radice del loto; il cuore-mente è come il fiore di loto. La radice è nel fango,
ma il fiore è nel vuoto.
Per la persona che ha realizzato iol Dao, il corpo può risiedere nel
mondo mondano, ma il cuore-mente riposa nei regni sacri.”
(Shiwu lun)
Nonostante i suoi metodi radicali, Wang Zhe ebbe un notevole seguito di allievi e simpatizzanti, in particolare sette dei suoi allievi si distinsero per la loro dedizione, furono chiamati i “sette perfetti”, alcuni di essi divennero molto conosciuti tra la popolazione cinese, in special modo Ma Danyang e Qiu Quji, quest’ultimo è entrato nella storia della Cina per aver salvato migliaia di vite di suoi connazionali, grazie a l’incontro che ebbe con uno degli uomini più potenti della storia dell’umanità, Gengis Khan. Qiu Quji dopo un sensazionale viaggio fatto per incontrare l’imperatore mongolo, che lo portò alla soglia dei settanta anni ad attraversare: Cina, Mongolia, Kirghistan, Kazakistan, Afghanistan e Pakistan; galoppando attraverso il deserto e la neve, incontrando tanti pericoli e terreni difficilmente percorribili, riuscì a conoscere Gengis Khan nell’attuale Afghanistan, e compiendo insieme il viaggio di ritorno verso la Cina, lo convinse a essere più clemente nei confronti della popolazione cinese. Oltre a salvare tante vite, Qiu venne riconosciuto dall’imperatore come ungrande maestro, e per tale motivo, il Khan esentò dalla tassazione tutti i monasteri Quanzhen, e pose Qiu a capo di tutti i monaci del nord della Cina. Quest’evento contribui enormemente a rendere lo Quanzhen popolarissimo nella nazione cinese.
L’appoggio da parte dello stato di cui godeva la corrente Quanzhen durò molto poco, la situazione mutò radicalmente già con l’ascesa al potere di Kubilai Khan, il nipote di Gengis Khan. Molti templi e testi taoisti furono distrutti per decisione dell’imperatore, tuttavia la diffusione della corrente monacale taoista era talmente forte che riuscì a sopravvivere a questo periodo difficoltoso. Nel corso dei secoli la corrente Quanzhen ha affrontato diversi periodi favorevoli alla sua diffusione, ma anche altrettanti periodi drammatici, come ad esempio gli anni della rivoluzione culturale che ha decimato la diffusione dei templi Quanzhen, tuttavia a seguito della rivoluzione, si è verificata una sorprendete rinascita del monachesimo taoista, infatti lo quanzhen è tutt’ora vivo e operante.
Tanti giovani sia uomini che donne, scelgono di entrare nel ordine monacale taoista, seguendo gli insegnamenti e l’esempio dei monaci più anziani, che ancora oggi, dopo divrse difficoltà affrontate, in diverse zone della Cina hanno un ruolo sociale molto importante; eseguono riti funerari e altri riti per la comunità e spesso vengono anche richiesti loro consulti per problemi di salute o per scopi divinatori. La loro giornata passa nella quiete e nel silenzio, ma tuttavia trascorre in fretta per i vari impegni, come: la recita delle scritture, la liturgia, tecniche di coltivazione biospirituali, assistenza ai laici in visita al tempio e inoltre molti di questi monaci sono spesso impegnati nella ricostruzione di edifici religiosi andati distrutti a seguito della rivoluzione culturale.
“La sala del tempio funge da refettorio e come stanza per ricevere i laici, sempre qui avvengono le riunioni della Comunità, ed è anche lo spazio dedicato alle chiamate telefoniche. Si tratta di uno spazio buio arredato con due divani usurati, un grande tavolo circondato da sgabelli, e una scrivania con una poltrona . La stanza è vuota. Il Monaco entra e serve se stesso una ciotola di zuppa di riso appiccicoso, che il cuoco, una laica che vive nel tempio, ha preparato e lasciato sobbollire sul braciere.Afferra un pezzo di pane al vapore prima di riportare il suo cibo nella sua stanza.Muove con cura i suoi libri e documenti, mette la sua ciotola sulla scrivania e sorseggia la zuppa rapidamente. Il suo tranquillo sorseggiare è l’unico suono.”
(Un giorno nella vita di un monaco taoista)