(Adnkronos) – Kamala Harris e Donald Trump continuano ad essere bloccati in un testa a testa negli stati chiave che decideranno le sorti delle elezioni del 5 novembre negli Stati Uniti.
Secondo l’ultimo sondaggio di The Hill and Emerson College Polling, i due candidati sono in parità, al 49%, in Michigan e Wisconsin, mentre Trump è in vantaggio di appena un punto in Georgia, North Carolina e Pennsylvania – 49% a 48% – e di 2 in Arizona, 49% contro il 47%. Harris, invece, è in vantaggio di due punti in Nevada, 48% contro il 47%.
Con una sfida sul filo, non si può escludere che debba essere la Corte Suprema a esprimere il voto finale per la Casa Bianca. Anche se è impossibile prevedere al momento una nuova situazione alla ‘Bush vs Gore’ – quando nel 2000 fu la Corte Suprema dopo settimane di battaglie legali a sancire la vittoria in Florida di George Bush consegnando al repubblicano la presidenza – Politico prospetta tre possibili scenari di un coinvolgimento della Corte.
Il primo scenario prevede che i sommi giudici siano chiamati ad esprimersi su una sentenza su una legge elettorale statale. In North Carolina, uno dei sette stati chiave che decideranno le sorti delle presidenziali con ogni probabilità con uno scarto minimo di voti, sono stati presentati diversi ricorsi contro le procedure di registrazione al voto e del voto per posta.
Harris-Trump
Il ricorso più significativo, con cui i repubblicani stanno tentando di escludere dai registri 225mila elettori, è appena passato al giudizio di una corte federale di primo livello. E nei giorni scorsi la Corte non ha accolto un altro caso, proveniente da un altro swing state, la Pennsylvania, sempre riguardante le registrazioni.
Il secondo scenario comprende la possibilità che la Corte sia investita di un caso dopo lo svolgimento delle elezioni. Questo potrebbe avvenire, ipotizza ancora Politico, nel caso in cui uno stato non notifichi al Congresso nei tempi stabiliti dalla legge la certificazione dei ‘grandi elettori’ che poi dovranno riunirsi nel collegio elettorale per votare formalmente il presidente.
Una nuova legge approvata dal Congresso dopo i fatti del 6 gennaio, rende infatti obbligatorio il rispetto della data per la comunicazione al Congresso. In caso di mancato rispetto la stessa legge prevede un meccanismo di ‘fast track’ per fare arrivare le dispute relative le certificazioni direttamente alla Corte Suprema.
Testa a testa negli stati chiave
Per esempio, si potrebbe verificare una situazione in cui la commissione elettorale della Georgia, controllata da funzionari trumpiani, si rifiuti di certificare un’eventuale vittoria di Harris, giustificando la posizione con accuse di frodi. A questo punto si aprirebbe la strada ad un ricorso legale, sulla base dell’Electoral Count Act della fine dell’800 e della nuova misura del 2022.
Il terzo scenario, infine, potrebbe portare ad un intervento della Corte alla fine del processo, cioè dopo la sessione congiunta, del 6 gennaio 2025, del Congresso per la certificazione finale del vincitore. E’ lo scenario più improbabile, anche perché, nota Politico, sarebbe il più esplosivo.
Secondo la legge federale, un quinto dei senatori e un quinto dei deputati possono presentare obiezioni alla certificazione dei voti elettorali di un particolare state, affermando che i voti “non sono stati dati in modo regolare”.
I sondaggi
I voti dati a qualcuno che, sulla base della legge federale e statale, non è qualificato per essere presidente potrebbero rientrare in questa categoria, scrive Politico ricordando che i democratici hanno cercato – con un tentativo bocciato anche dalla Corte Suprema – di squalificare Trump dalle elezioni per il suo ruolo nell’insurrezione del 6 gennaio 2021, per il quale è stato messo sotto impeachment ed ora è incriminato in un processo federale.
In caso di vittoria di Trump, e certificazione della sua elezioni da parte del Congresso, democratici – sempre nello scenario ipotetico e improbabile tratteggiato dal sito americano – potrebbero rivolgersi alla Corte Suprema – che va ricordato ha una maggioranza conservatrice grazie ai tre giudici nominati proprio da Trump – sostenendo che i colleghi non hanno svolto il loro dovere confermando l’elezione di qualcuno che non era qualificato ad essere eletto.
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