Lo sversamento fu interrotto solo dopo 106 giorni; morirono 11 persone e furono sversate in acqua oltre 500 mila tonnellate di petrolio.
Gran parte di queste si depositarono sui fondali, da dove hanno continuato negli anni ad avvelenare l’intero ecosistema marino.
Agli inizi di aprile 2010, Barak Obama aveva riavviato, dopo una lunga moratoria, il programma di esplorazioni petrolifere offshore negli Stati Uniti: un pedaggio pagato alle lobby del barile per far passare un “Climate Bill” che impegnava gli Usa a ridurre solo del 4 per cento le emissioni di gas serra rispetto al 1990.
Sfortunatamente le parole di Obama apparvero di cattivo presagio appena pochi giorni dopo essere state pronunciate: “Le piattaforme petrolifere, oggi, non causano sversamenti. Sono tecnologicamente molto avanzate” (Barak Obama – 2 aprile 2010).
A pochi giorni dal quinto anniversario di quella tragedia, i cui danni sono ancora oggi incalcolabili, la storia sembra averci insegnato ben poco.
Due settimane fa un vasto incendio è scoppiato su una piattaforma petrolifera permanente della compagnia messicana Pemex, sempre nel Golfo del Messico, provocando quattro morti, sedici feriti e danni ambientali che Greenpeace ha chiesto di accertare, ma la Pemex ci ha negato il permesso al sorvolo dell’area e all’ispezione della piattaforma.
Eppure immagini satellitari mostrano chiazze di petrolio in prossimità del luogo dell’incidente.
“C’è ancora, anche tra i nostri governanti, chi va in giro a dire che le estrazioni di petrolio in mare sono sicure e rappresentano solo una fonte di ricchezza, occupazione, progresso. Non c’è da credergli” dichiara Alessandro Giannì, direttore delle Campagne di Greenpeace Italia.
“Con il decreto Sblocca Italia, contro la cui conversione in legge pende il ricorso di sette Regioni presso la Corte Costituzionale, il governo Renzi ha spalancato le porte dei nostri mari ai petrolieri. Per consentire loro di estrarre pochissime riserve fossili inquinando, contribuendo alla distruzione del clima, pagando royalties bassissime e creando poca o nulla occupazione”.
Lo Sblocca Italia, grazie alla deregulation selvaggia che promuove in spregio alla normativa europea, rappresenta un piano di sfruttamento intensivo delle risorse di idrocarburi italiane, che sono scarse e di pessima qualità, la cui estrazione rischia di consolidare la dipendenza italiana dalle fonti fossili.
Nel Mediterraneo già oggi si riscontra la più alta concentrazione di idrocarburi al mondo (38 milligrammi per metro cubo); e si concentra il 20 per cento del traffico mondiale di idrocarburi, oltre 8 milioni di barili al giorno.
Gli appetiti dei petrolieri non riguardano solo la porzione italiana del Mediterraneo: in questi mesi il governo croato sta lavorando per consegnare loro il 90 per cento delle sue acque nazionali, ovvero gran parte dell’Adriatico.
Sull’altra sponda si muove anche l’Italia: nuovi progetti ottengono il via libera in Abruzzo mentre in un’area sin qui interdetta alle trivelle, davanti alle coste del Veneto, si prevede il riavvio di programmi sperimentali in spregio alla subsidenza dei territori costieri e di Venezia.
Oltre 120 mila cittadini hanno aderito alla campagna di Greenpeace #nonfossilizziamoci. Greenpeace continuerà ad opporsi a ogni tentativo di distruzione del nostro mare.
E chiede al governo italiano di sottoporre i suoi piani energetici a una seria VAS (Valutazione Ambientale Strategica), aperta agli stati confinanti; e di recepire presto la nuova direttiva europea sulle trivellazioni offshore.