Quando ti capita l’amore addosso, non c’è scampo: bisogna accettarlo e prenderne tutto il meraviglioso che ti può donare. Quando poi l’amore capita addosso a un poeta – in questo caso a una poetessa – allora necessariamente un po’ di quel meraviglioso andrà condiviso con tutti quelli che amano la poesia.
È quello che ha fatto Grazia Fresu (foto di Anna Serrato), poetessa dall’ormai consolidato pedigree (all’attivo altre tre raccolte di poesia, senza contare i numerosi interventi nella saggistica e nel teatro).
La raccolta “L’amore addosso” (Roma, Bastogi Libri, 2017, pag. 70) comprende 50 liriche che trattano di un amore adolescenziale ritrovato in età matura e vissuto con l’entusiasmo dell’adolescenza e con la pienezza della maturità. È per questo che il libro si svolge tutto all’insegna dell’ossimoro. Infatti il tema di fondo, esso stesso un ossimoro – l’amante-amato lontano ma sempre presente – viene declinato proprio in una selva di antitesi e di ossimori, tra le “antiche mancanze” della prima poesia e “il canto fascinoso della vita” che con la sua pienezza chiude l’ultima (bellissimo armonico endecasillabo).
Nei versi “In questo oceano che ci divide/ c’è un sussurro di foglie, d’allegria” (“L’oceano”) l’espressione rende molto bene questa condizione di presenza/assenza. L’oceano è forse la lontananza fisica, ma è anche tutto il tempo perduto da recuperare.
Così la presenza si materializza nell’assenza:
“Come puoi mancarmi / quando mi mancano il tuo viso, / le tue parole ma tu mi stai dentro…”; “l’urlo del silenzio / nel santuario della mia carne” (“Il tempio di Eros”).
O nella memoria: “Ti sei fermato / un giorno di antiche mancanze / a pensarmi, ti ho invaso / di ricordi soavi…” (“Un giorno di antiche mancanze”).
Nei testi s’intrecciano dunque presenza e assenza, felicità e dolore, ma senza nostalgia, senza il “dolore del ritorno” o “ritorno doloroso” o “dolore del non ritorno”. Non che manchi il dolore nella poesia di Grazia Fresu, ma esso è confinato in spazi e tempi anteriori alla poesia stessa, e fa capolino ogni tanto solo attraverso le righe, come dolore pregresso (nel senso in cui Raboni parlava per Sandro Penna di “schianto pregresso”): “il sapore di quest’amore / che viaggiò nel mare delle negazioni” (“Il sapore di quest’amore”); “mari che non navigammo” (“I mari che non navigammo”); “fuochi che si spensero”, “i miei risvegli inquieti”, “ombre lunghe nella sera” (“Questi tuoi passi”);“una goccia di sangue / sulle mie dita trafitte da una rosa” (“Sapori”); “Le sette gemme / del tuo petto ferito e generoso / che hai salvato dal tempo per amarmi” (“Sette”); “ma io sto nel deserto / assiderata / dai miei gesti sbagliati / dal dolore del tempo / già sprecato / e il tuo richiamo / sul fare di una notte / un po’ agitata / si affievola pian piano” (“Una piccola sera”).
Da “I nostri occhi”: “I nostri occhi che sarebbero stati / le finestre ridenti del figlio / che non abbiamo concepito / che ci assolve non nato”; “…i tuoi occhi / di padre sul mio figlio agognato / i miei occhi di madre sul figlio del tuo amore, / i nostri occhi sono i soli che sanno la verità, / mio amore”.
Così è per “il sapore di quest’amore / che viaggiò nel mare delle negazioni”, così per i “mari che non navigammo”, per i “fuochi che si spensero”, e per tante altre belle immagini.
S’intrecciano in queste poesie anche il canto e il cantato, nel senso che spesso sono rievocati i versi stessi nel loro farsi: in una sorta di “meta-poesia” i versi diventano essi stessi metafore della vita d’amore: poesia e vita sono una cosa sola, non però nel modo implicito e chiuso del vecchio ermetismo, ma in un modo aperto, dichiarato:
“Cerco metafore per raccontarti / ma nessuna ha il gaietto dei tuoi occhi …”. È la poesia “Metafore”, che si chiude così: “nessuna metafora, mio amato, / ha la tua bellezza d’amante”. Ma anche in “Come sorridi”: “Come sorridi, avviluppato / nel mio fiume di sensi e di scrittura, / te ne stai come un verso ricreato”; e ne “I mari che non navigammo”: “I mari che non navigammo / nei miei versi li invento / […..] / nei miei versi alzo la bandiera sui pennoni / nei miei versi l’acqua bolle e si placa / […]”. La poesia “I mari che non navigammo” è costruita proprio sull’immagine che si ripete dei versi che creano quello che non c’era, che era perduto: dunque la poesia può inventare e cucire quello che non c’è stato con quello che al presente c’è (e se si tratta di un amore ritrovato, i conti tornano).
La scrittura, la forma poetica, la poesia risarcisce il non vissuto, il negato.
Una nota va fatta per i colori presenti nei versi, dove prevale insistentemente il rosso, che è passione-amore ma anche ferita: “parlarmi innamorarmi / innamorarti ancora / con il tocco cinabro / di un petalo di rosa” (“Un giorno di antiche memorie”); “nel fondo dell’abisso sarai il corallo” (“L’Oceano”); “L’ibiscus rosso” (“Arcobaleno”); “Il tuo seme sapiente / degli umori del mondo genera in me / un giardino di corolle purpuree” (“Il tempio di Eros”); “purpuree labbra” (“Come puoi mancarmi”); “fiori scarlatti mi ornano i capelli” (“Ieri”).
Ma altri vari colori costruiscono immagini e metafore: l’azzurro, il viola, il giallo, il dorato, il gaietto.
Ci soffermeremo su una lirica in particolare, perché ci sembra che racchiuda e condensi la poetica di questo libro: “Amarti somiglia”.
L’incipit ricorda “Come t’amo? Lascia che ne conti i modi” di Elisabeth Barrett Browning, (How do I love thee?/ Let me count the ways/ I love thee to…” “Come t’amo? Lascia che ne conti i modi / T’amo con la profondità … / t’amo nelle più piccole cose … / t’amo …”), con un attacco che si ripete più volte in anafora ma con lievi variazioni che danno armonia scongiurando il rischio della monotonia.
La metrica è su base endecasillabo, ma anche qui variazioni interne a molti versi seguono la musicalità del dettato poetico.
Così il primo verso, un endecasillabo con un’aggiunta iniziale che dà un avvio colloquiale, discorsivo: “Amarti somiglia a quello che nell’isola fa il vento”.
Così la serie decasillabi-settenari (vv. 5-8): ”amarti somiglia alla mia mano / che ti scompiglia il cuore / e scrive versi per consegnarti / a un tempo di bellezza”.
Così ancora, a puro titolo esemplificativo, il v. 19 di 14 sillabe che risultano da due settenari: “aquilone gagliardo di carta colorata”.
Molte e tutte belle le immagini.
“Amarti somiglia a quello che nell’isola / fa il vento, una brezza sottile che profuma / di ginestre e di mare o l’uragano / che sradica i pini sulla riva”.
Innanzitutto l’isola: è un tema che ha una lunga presenza nella nostra poesia (da Foscolo a Ungaretti, senza dimenticare Itaca).
Non ricorre solo qui, ma anche in qualche altra lirica, come in “Arcobaleno”: “L’isola, sai, è in questo arcobaleno…”.
L’isola è il simbolo di una condizione esistenziale, sospensione tra fra memoria e attesa, tra passato e futuro. E tra passato e futuro si svolge il percorso della lirica, come testimonia l’uso dei tempi verbali.
Per il passato: “il gesto che ti ha consacrato”; “quando il tramonto ci arrossava i baci”; “tremolio che nella notte / facevano nel porto le lampare”
Per il presente, c’è il presente astorico del leitmotiv “somiglia” e c’è il presente nel senso dell’oggi, ma l’oggi ha insieme la connotazione della forza gioiosa e della fragilità: “questo amarti / ardito e generoso che si muove / nei nostri giorni come uno stendardo / di festa e vola in cielo / aquilone gagliardo di carta colorata”.
Il presente sfuma in un infinito-indefinito: “guidando il desiderio all’infinito”. Il presente è fuggente.
Il percorso lirico alla fine si proietta nel futuro: “somiglia a quel domani dove sei / il luogo del conforto e l’allegria / la carezza più audace quel percorso / che ha riempito di fiori la mia via”. (con questo stupendo endecasillabo che è reso più armonico e vitale dalla rima significante “allegria / via”).
E i testi lirici sono tentativi di sciogliere l’ossimoro, di avvicinare il lontano e il vicino. È la magia che la poesia o l’amore possono compiere.
Tutto da godere quindi questo libro, pieno di immagini irresistibili, di colori, di odori, di sapori, e basato sul più classico dei versi della nostra tradizione, l’endecasillabo, trattato però come nella migliore lirica del Novecento, con quelle “trasgressioni” che ne fanno strumento docile per esprimere un percorso lirico che attraversa il passato, naviga nel presente e si proietta nel futuro, senza mai perdere d’occhio l’irrisolvibile ossimoro della vita, tra separatezza (non solitudine, però) e amore (che è condivisione, partecipazione, senso dell’altro).