Nell’anno del Covid la giornata contro la violenza alle donne, il 25 novembre 2020, è più importante che mai. Il coronavirus ha cambiato le nostre vite, abolito la socialità, ma non certo la violenza sulle donne. L’ha solo celata dietro le mura di casa, in famiglia, luogo del delitto per eccellenza perché è qui che avviene la maggior parte degli omicidi, delle violenze in cui la vittima è donna. Lo confermano i dati raccolti dalla direzione centrale della polizia criminale nei primi sei mesi dell’anno confrontati allo stesso periodo del 2019.
La giornata contro la violenza sulle donne 2020: persone e numeri
Secondo i dati più aggiornati del ministero dell’Interno, le donne uccise fino al 19 novembre quest’anno sono 96, l’anno scorso nello stesso periodo erano 98, a fronte però di 50 omicidi totali in meno. Invece nel primo semestre 2019 i femminicidi erano il 36% degli omicidi totali, nel 2020 da gennaio a giugno sono saliti al 46%. Se negli anni 90 su 5 uomini uccisi c’era una donna, ora il rapporto è alla pari. E in famiglia le cose vanno sempre peggio: le vittime sono al 75% ragazze, mogli, ex fidanzate. Senza contare che proprio nei giorni del lock down i femminici sono triplicati, una donna uccisa ogni 48 ore.
Iniziative in questo anno di Covid
E così nei giorni della pandemia che impediscono assembramenti e manifestazioni il movimento femminista NON UNA DI MENO organizzerà contro la violenza sulle donne, la violenza di genere, iniziative sparse per l’Italia, flashmob, presìdi, campagne social e assemblee virtuali al grido: “Se ci fermiamo noi, si ferma il mondo”. Le idee sono chiare: “Le conseguenze del lockdown si misurano nei dati della violenza domestica destinati ad aumentare ancora con le nuove misure di confinamento, con i centri anti-violenza femministi e le case rifugio che hanno dovuto far fronte a un’emergenza nell’emergenza per non lasciare nessuna da sola e con l’accesso all’aborto che è diventato ancora più complicato.
Lavoratrici e madri sono obbligate a un’impossibile conciliazione tra lavoro e famiglia, tra salario e salute. Ma sono soprattutto le donne e le persone lgbt, migranti, precarie e non garantite a pagare la crisi e a perdere per prime il lavoro. La tenuta della sanità e della scuola mostra un sistema sociale distrutto dalle politiche di austerity e fondato sulle diseguaglianze”, dicono le attiviste chiedendo che le risorse del Recovery Fund vadano a finanziare sanità e scuola pubblica, a garantire un reddito di autodeterminazione, un salario minimo europeo e un welfare veramente universale”.