«Gianni Minà ci ha lasciati», così ieri sera un’amica e collaboratrice mi ha dato la notizia che in breve ha fatto il giro del mondo. Non mi ha lasciato attonito la cosa in se, sapevo che aveva avuto qualche problemino di salute nel recente passato. Mi ha lasciato basito quello che sarebbe venuto a mancare con la sua scomparsa.
Premetto che questo è il primo articolo che scrivo nella mia vita, professionale, usando il singolare e l’approccio diretto che – almeno a quelli della mia generazione – è stato detto, dai maestri di questo mestiere, di non ricorrere mai. Un insegnamento che rovescio la prima volta dopo più di quarant’anni perché credo fermamente che sia giusto così. Lo devo alla persona che mi ha fatto innamorare del giornalismo.
Queste mie poche righe giungono non a caldo, anche perché non sarei stato capace di scrivere nulla, ma con un minimo di ponderazione e con la calma del pensiero che era il fondamento del modo di fare giornalismo di Gianni Minà.
Gianni Minà, il suo giornalismo
Lui, affabulatore nato. Capace di raccontare allo stesso modo, con lo stesso pathos, Fidel o il Subcomandante e l’ultimo degli avventori del bar più malfamato di Caracas. Curioso di quella curiosità sana che ogni persona che fa questo mestiere deve avere per riuscire a raccontare quello che vede e che sente. Rispettoso di tutti e che mai ha dimenticato che di fronte a lui, nelle mille e mille interviste fatte, c’erano persone e che ogni fatto deve essere raccontato partendo dal rispetto dell’interlocutore.
È da ieri che tutto il web, social compresi, sono inondati da spezzoni di sue interviste con personaggi famosi, la sua mitica agendina tanto invidiata da Troisi. Il suo mood bonario ma rigoroso, grondante professionalità ad ogni pausa. Ogni suo servizio figlio, sempre, di una preparazione meticolosa.
Mi fa un po’ sorridere quando, oggi, si parla di storytelling nel giornalismo come se si fosse fatta chissà quale scoperta, chissà quale innovazione. Gianni Minà ha fatto dello «storytelling» la sua cifra quando ancora il termine neanche era stato coniato e, forse, nemmeno ci pensava nessuno. La sua unicità il suo marchio.
La TV, la scrittura, il Sud America. Un uomo che guardava il mondo sempre da un punto di vista ‘altro’
La fortuna di essere cresciuto con i suoi programmi televisivi: Blitz è storia della cultura, oggi ma mai troppo riconosciuto. Era genialità e professionalità quel programma e lui in quel contenitore, rivoluzione di un giornalismo ingessato e bacchettone – quello dell’epoca -.
Ospiti che vedevamo decine di volte in altri ambiti televisivi e non che, però, con lui come intervistatore dicevano cose che mai ci si sarebbe sognati di sentire. Altri ospiti che mai avremmo più rivisti in contesti televisivi. Interviste epiche come quella a De Andrè, con affianco un giovane Mauro Pagani, che diventa una lezione di poesia e letteratura musicale. Chiacchierate con Gabo (Gabriel Garcia Marquez), poesia e America latina, nelle quali sembrava di percorrere insieme le vie polverose ed i canyon o veleggiare sul Mar dei Caraibi.
Poi la fortuna più grande, incontrarlo di persona ed intervistarlo, io poco più che ventenne ai miei primi passi in un gruppo Televisivo che da Napoli irradiava in tutta Italia. L’ansia di dovermi confrontare con il «Maestro» e la conoscenza, invece, della sua umanità e della sua umiltà che lo fanno accomodare con me a camere spente e scherzare su quel nome di battesimo che ci accomuna prima di lanciarci in un’intervista che per me rimane semplicemente il coronamento di un sogno.
Non è un ricordo questo, niente coccodrillo, sei solo riuscito a farmi condividere, Gianni, con tutti quanto di più profondo mi hai insegnato consapevolmente e non. Forse, se ci fossimo rivisti non ti saresti ricordato neppure di me ma non lo avresti detto; avresti sorriso con quella dolcezza che solo i grandi hanno. Naturalmente. Ciao Gianni, resterai sempre in ogni mio tentativo di raccontare qualcosa di questo mondo.
Foto tratta da https://www.facebook.com/giannimina38