(Adnkronos) – “La memoria di Matteotti è calpestata. Il suo monumento, sul Lungotevere, a me pare lo specchio di questo mancato riconoscimento: è brutto, incomprensibile per chi vi passa, mai illuminato col buio…”. Le parole sono di Concetto Vecchio, quirinalista del quotidiano La Repubblica e autore di un libro, ‘Io vi accuso. Giacomo Matteotti e noi’ (Utet), che è, insieme, inchiesta giornalistica, scrittura cinematografica, biografia politica, ritratto psicologico, storia. Sono parole significative perché identificano il punto di vista con il quale ha scelto di ricostruire, raccontare, e ridare dignità al profilo di un uomo che, nonostante lo spessore, è uscito troppo poco dai manuali scolastici.
Per questo, Concetto Vecchio definisce il libro “un’inchiesta su una dimenticanza”, perché Giacomo Matteotti “venne, a lungo, oscurato anche a sinistra, specie dai comunisti, perché da riformista socialdemocratico era stato troppo in anticipo sui tempi, e dirsi socialdemocratico era una sorta di bestemmia nel lungo Dopoguerra italiano”. Individuata la premessa, l’intuizione che ha fatto nascere e crescere l’interesse per il personaggio, è servito poi il metodo per portare a termine un lavoro che, in poco più di 200 pagine, riesce ad andare oltre il timore che Concetto Vecchio confessa nei ringraziamenti del libro, quel “Matteotti mi faceva paura” con cui descrive il suo iniziale ‘no’ alla proposta del suo editore. E’ stato necessario mettersi in gioco fino in fondo per allontanare quella paura.
“Da giornalista io vado nei posti matteottiani col mio taccuino e la macchina fotografica, faccio parlare la coppia che ha messo la targa sul muro di via Pisanelli 40, da dove Matteotti uscì per andare incontro alla morte, (“senza chiedere permesso a nessuno”, mi ha detto l’avvocato Marocchi), scovo Franco Nero, l’unico (!) volto di Matteotti al cinema, do voce a Stefano Caretti, il più grande studioso di Matteotti che lontano dai riflettori, e snobbato dalle grande case editrici, ha tenuto viva la memoria del martire, e infine incontro Laura Matteotti, la nipote di Giacomo, che mi racconto di come la morte del nonno fosse un tabù: quelle ultime dieci pagine sono la chiave della indagine, il senso di tutto”.
Va letta tutta questa “inchiesta sul trauma pubblico (perché Matteotti venne dimenticato) ma anche privato (che cosa succede nelle famiglie, anche a distanza di generazioni, dopo un delitto politico?)”. E il lettore deve abbandonarsi alla prospettiva che gli concede l’autore, senza risparmiarsi, accettando di seguirlo. Si arriva, attraverso pagine in cui trova spazio anche “l’amore con Velia, la moglie, il cui rapporto sfocia nel romanzesco”, alla dimensione attuale del profilo di Matteotti. “Risiede nella sua difesa strenua del Parlamento, della democrazia, della scuola pubblica (a Benedetto Croce, a Montecitorio, disse: “Voi state speculando sulle nuvole.
Qui non si viene con i libri di estetica ma con dei programmi pratici”): oggi si batterebbe per la sanità pubblica”, sintetizza Vecchio. Il peso del Matteotti antifascista è ben presente. “Capì per primo la forza distruttrice del fascismo, ma fu solo nella lotta, e quindi questo è anche un libro sulla solitudine di un politico”, sostiene l’autore. Vecchio, quindi, riferendosi alla cultura, alla competenza, e allo spessore del politico, ricorda: “Proprio perché il più bravo venne fatto uccidere dagli sgherri di Mussolini”. Ma la sua storia, nella ricostruzione dell’autore di ‘Io vi accuso’, “è anche una lezione per la sinistra di oggi, perché Matteotti fu concreto, popolare, si sporcò le mani nella fatica di ogni giorno, conscio che è nella lotta alle disuguaglianze la missione di un socialista”. Oggi, conclude, “Matteotti sarebbe ogni giorno in periferia!”. (Di Fabio Insenga)
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