La notte scendeva languida sul campanile vuoto e sulla torre diruta allagando gli occhi vigili dei gatti.
Avanzavo incespicando, illuminata dalla luna e dalla volta stellata che pian piano, espandendosi, svelava l’immensa ricchezza dei sogni umani. Sentivo di essere osservata dai piccoli felini che cautamente mi eludevano saltando fra i mattoni in pietra grigia, penetrando nel buio dagli usci semiaperti e dalle finestre ormai prive di vetri.
Tutto aveva avuto inizio pochi anni prima. L’Appennino è disseminato di borghi abbandonati, qualcuno l’ho visitato provando sempre un moto di tristezza per quelle morti a cielo aperto. A volte percepivo nell’aria un lamento, un pianto, le voci del passato – pensavo – o semplicemente il rumore del vento tra le pietre e gli scricchiolii delle travi e delle insegne sbiadite. M’ero ripromessa di non ripetere l’esperienza quando venni a conoscenza che a poca distanza dal mare dell’antico nocchiero, nell’entroterra cilentano, in un borgo fantasma viveva e resisteva il suo ultimo abitante e così lasciai la costa e mi addentrai tra le alture preappenniniche per poter incontrare Gerardo.
‘O tedesco? – aveva esordito l’arcigno ed esoso benzinaio – salite, salite sempre, come vi porta la strada arriverete proprio alla piazza del paese vecchio e dovete lasciare la macchina perché là finisce tutto. È testardo, Gerardo, se scendeva faceva i soldi ma non ne ha voluto sapere, sta a fa’ la guardia alle pietre e alle capre!
Ora, a distanza di pochi spiccioli di anni, Gerardo non c’era più e tutto, in quel secondo viaggio, appariva insensato e sinistro eppure, rammentando i suoi tersi ragionamenti, egli era precisamente là, tra le sue mura, il carro dell’Orsa e il profilo musicale dei monti boscosi e nel cuore sentivo nuovamente calare la pace compiuta della sua vita singolarmente vissuta.
Nel crollo di un solaio aveva consegnato le sue ossa alla terra, all’età di settantadue anni trascorsi senza aver mai saputo leggere e scrivere ma con tanti racconti in testa da averne uno per capello, così diceva toccandosi la chioma canuta eccezionalmente folta e alta.
Il cielo me li tiene su da quand’ero piccerillo, si preoccupa che guardo troppo a terra – spiegava in un dialetto benevolmente supportato dall’italiano che lasciava fluire in vernacolo quando sciorinava i detti antichi del suo sapere. Con chiunque lo andasse a cercare ci teneva a non restare nell’insipida superficie dei convenevoli e da subito si dichiarava con trasparenza, con la modestia dell’ignorante che ha da imparare da ciascuna parola, sembrava un filosofo pastore che raccontava per amore le storie della vita, con profonda riconoscenza al destino, tra lo scampanellio di latta del suo sparuto gregge o tra i colpi dell’accetta.
Al termine di ogni incontro ringraziava appagato e sorrideva stringendo gli occhi azzurro cielo che brillavano tra le rughe spesse come cristalli miracolosamente intatti tra le ceneri. Aveva l’abitudine di lasciare sempre un ricordo all’amico del momento, a me regalò un oggetto che serbava una storia d’amicizia: una piccola piramide di onice nera.
I compaesani mi chiamano ‘o tedesco – ci tenne a precisare quel giorno – ma i giovani della Comunità Montana mi hanno dato un altro soprannome, Ailender, che mi piace di più. Non sono stato in Germania, non ho mai viaggiato, ma ero biondo e con gli occhi azzurri come Herard, un tedesco che nei primi anni cinquanta fece tappa qui, prima di proseguire verso la Basilicata e la Calabria, per studiare i dialetti del Mezzogiorno. Mio padre Achille era tornato dalla guerra e dai campi di prigionia con molte malattie. Era un uomo buono con l’intelligenza della bontà e decise di fare la pace ospitandolo e aiutandolo col dialetto. Come avete saputo di me?
Internet – e gli mostrai il cellulare con un sorriso sciocco. Gerardo tirò fuori dalla tasca il suo, spento, con la custodia lacerata in più punti – L’ha gradito Filomena, la capra vecchia, l’ho sorpresa col cellulare in bocca e per strapparglielo ci stavo rimettendo un dito. Me l’ha regalato il sindaco ma qui, tra i monti, non c’è campo, meglio la pistola spararazzi, come a mare, e poi sarà come Dio vuole. Ogni due, tre giorni, viene qualcuno, non sono veramente solo, c’è chi ha il cellulare ma neppure un numero buono da chiamare.
E voi, Gerardo, se aveste modo di usare il cellulare a chi chiamereste?
Ahmed, l’egiziano che m’ha fatto vedere l’Egitto, gli direi “Ahmed sto per salire in cielo!” – e poi rivolto a me – venite, vi mostro una mia creatura, il piccolo museo del paese vecchio.
Ero emozionata da quella situazione prolungatasi fino al tramonto. Entrammo in una stanzetta decorosa con un grosso tavolo pieno di oggetti, chiavi che in quella silente libertà non chiudevano più nulla, lampade e candele, un libro con dedica, fotografie, vecchi giocattoli, pentolame. Gerardo trasse dal mucchio una piccola piramide in pietra nera lucente e me la mostrò.
Guardate, è onice nero, Ahmed mi spiegò che rappresenta il radicamento, a un posto e in noi stessi, la forma invece ricorda la montagna che ci avvicina al Cielo. Guardate – e appoggiò la piramide sulla finestrella. Spense la lampada e mi avvicinò lentamente all’apertura con una visuale leggermente laterale. Il profilo della piramide iniziò a stagliarsi rispetto allo sfondo blu della notte stellata, apparve la luna, dapprima solo un piccolo punto brillante, divenne splendente ed occupò gran parte dell’inquadratura incorniciata dalla finestra che sembrava sparita, ingoiata dall’immaginazione.
Provai un brivido dinanzi a quella infantile magia, entrai nel sogno con tutta la nostalgia dell’alba della vita, e mi lasciai trasportare tra le dune sabbiose del mito, a tu per tu con le stelle.
Al momento del commiato Gerardo era emozionato come un bambino, prese la piccola piramide e me la regalò – Se tornerete, mi troverete qua, da questa finestra si vede bene l’Orsa maggiore.
Ero tornata. Entrai dall’uscio accostato facendomi luce con la torcia, una spessa coperta copriva il piccolo museo di Gerardo. Andai alla finestrella e tirai dalla tasca il suo dono, l’appoggiai lì, attesi la luna, l’Egitto, la magia che brillò mentre sussurravo buon viaggio.
Foto di copertina generata con Copilot per Cinque Colonne Magazine