(Adnkronos) – Due anni nascosto in una foresta per sfuggire ai nazisti. E’ la storia di Maxwell Smart, oggi 93enne, sopravvissuto all’Olocausto aspettando la fine dell’occupazione nazista della Polonia. In una intervista al britannico ‘The Guardian’ l’uomo, che oggi vive a Montreal, in Canada, ha raccontato quella terribile esperienza. “Uccidere un ebreo era uno sport -spiega-. Quando pioveva mi sentivo al sicuro: i cacciatori con l’acqua e il fango non vanno in giro per i boschi. Essere individuato avrebbe significato la morte”.
Aveva appena nove anni quando i nazisti gli portarono via i genitori e la sorella minore, lasciandolo completamente solo. Una pagina dolorosa della sua vita tenuta nascosta per 70 anni, tanto da fargli cambiare il suo nome da Oziac Fromm a Maxwell Smart.
“L’Olocausto non esisteva – racconta -. A casa mia era un tabù. I miei figli non sapevano nulla. Dopo la guerra non potevo permettermi di pensare alle ferite del mio passato. L’ho cancellato”. Il dolore provato lo ha trasferito su tela: i rami di abete che usava per costruire il suo rifugio nella foresta, gli alberi che guardava. Nato nel 1930 da madre ceca e padre polacco, quando era bambino la famiglia si trasferì dalla Cecoslovacchia a Buczacz, una piccola città che allora faceva parte della Polonia, oggi Ucraina, dove metà della popolazione era di religione ebraica. Il padre aveva un negozio di abbigliamento.
Nel luglio 1941, i nazisti arrivarono a Buczacz. Un giorno l’avviso a tutti gli uomini ebrei di età compresa tra i 18 ei 50 anni di registrarsi per il lavoro, circa 350 uomini: il padre fu portato su una vicina collina e fucilato. Smart lo scoprì solo anni dopo: alle famiglie infatti dissero che i loro uomini sarebbero stati rilasciati se avessero rinunciato ai loro beni.
Durante un viaggio di ritorno a casa dopo aver spalato il grano, Smart e dozzine di altri ebrei furono portati via su camion da guardie armate. Furono spogliati e imprigionati per tre giorni. “Ricordo di essere stato in cella senza cibo, senza acqua. Ero fantasioso: mi sono tolto una scarpa, l’ho spinta fuori dalla finestra per raccogliere la neve e berla”. In un’irruzione della Gestapo nell’appartamento che la sua famiglia condivideva con altri nel ghetto, suo nonno fu colpito alla testa proprio di fronte a lui. “Sapevo che gli anziani morivano, ma non pensavo nemmeno che fosse possibile uccidere. Solo quando l’ho visto davanti ai miei occhi ho capito che erano degli assassini”, ricorda.
La famiglia fu imprigionata e il giorno successivo fu caricata su camion. Sua madre gli disse di scappare. “Ero arrabbiato -spiega Smart-. Ho detto: ‘Cosa vuol dire che non vuoi portarmi? Tu sei mia madre’. La seguii finché lei non mi spinse via e salì sul camion. Questo mi ha salvato la vita”. La zia e lo zio di Smart hanno pagato un contadino vicino, Jasko Rudnicki, per nascondere il ragazzo. L’uomo era povero, viveva in una capanna di fango in una foresta isolata con sua moglie Kasia e i loro due figli. Denunciato da un vicino l’uomo dovette allontanare il ragazzo: prima di lasciarlo gli insegnò qualche regola di sopravvivenza: cosa mangiare, cosa non mangiare, come intrappolare un coniglio, come accendere un fuoco.
La foresta poneva due grandi sfide: il rischio di esser scoperto e la fame. Smart aveva incontrato altri ebrei nascosti nei boschi e il 99% di loro catturato per fame quando si allontanavano in cerca di cibo. Bacche, funghi e carcasse avanzate dai predatori non potevano bastare. Ciò che spaventava di più Smart non era il freddo, il dolore, i nazisti o la fame. “Era solitudine. Per passare il tempo dipingevo la foresta nella mente. Penso di aver inventato l’espressionismo astratto molto prima che diventasse popolare. Nella mia immaginazione ero libero”.
Una notte, Smart si svegliò e vide un ragazzino, Janek, non più di 10 anni, che vagava tra i cespugli, affamato e tremante. Janek e Smart hanno trascorso sei mesi nello stesso rifugio fatto di foglie. A loro si aggiunse per qualche tempo un bimbetto da loro salvato. Janek morì per la febbre e il freddo. Nonostante tutto quello che Smart ha passato nella foresta, non si è mai arreso. “Mia madre mi ha detto di salvarmi. Lei mi disse: ‘Se non salvi te stesso, non avrai più famiglia’.
Vivevo come un topo. Ho mangiato la corteccia. Mangiato vermi. Ho mangiato mezzi conigli tagliati e abbandonati nel bosco. Ma non ho mai rinunciato alla vita”. Pochi mesi dopo la morte di Janek, Smart riuscì a far visita a Rudnicki, il quale gli disse che era libero, che l’occupazione nazista era finita. Grazie al War Orphans Project, che reinsediò circa 1.000 ebrei sotto i 18 anni, Smart raggiunse il Canada. “Ero un totale rifiuto della società -ricorda l’uomo-.
‘Sopravvissuto all’Olocausto’ sembrava qualcosa di sporco. Quando mi sono sposato avevo 20 anni. Non potevo più sopportare la solitudine. Ho sposato la figlia di un’altra sopravvissuta all’Olocausto, nessun altro voleva toccarmi”. Diventato uomo d’affari di successo, Smart ha riscoperto la pittura, culminando con l’apertura della sua galleria a Montreal nel 2006. Smart ha taciuto la sua storia fino a pochi anni quando ha deciso di scrivere un libro di memorie. La sua storia è anche diventata un film ‘The Boy in the Woods’.
—internazionale/esteriwebinfo@adnkronos.com (Web Info)