«Quando non può più lottare contro il vento e il mare per perseguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa (il fiocco a collo e la barra sottovento) che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme»
Laborit, dall’analisi accurata di quest’ultime che rappresentano il tragico retroscena dell’esistenza dell’uomo, elabora un principio da cui si sviluppa il suo sistema concettuale. Per il biologo infatti esiste un collegamento indissolubile tra il comportamento e il sistema nervoso senza la comprensione del quale non si può procedere molto lontano. Nel tentativo di spiegare i malesseri che inquinano la vita dell’uomo, si rifà perciò al modello neurofisiologico di Mac Lean e inquadra l’apparato fondamentale dell’essere umano come strutturato essenzialmente in due parti: una più primitiva, denominata cervello del rettile, che mira a soddisfare i bisogni primari come la fame, la sete e la sopravvivenza e un’altra che si rifà al sistema limbico e accumula informazioni sotto forma di ricordi piacevoli e spiacevoli. Grazie al raccordo di quest’ultima parte con la corteccia, che nell’uomo è molto sviluppata, si riesce, attraverso costruzioni immaginarie, ad anticipare il risultato dell’azione e ad indirizzarsi con più facilità verso esperienze gratificanti.
Sarebbe tutto lineare e anche semplice se non fosse che, secondo Laborit, nella ricerca delle azioni gratificanti è possibile scontrarsi con altri individui dai medesimi bisogni. Dallo scontro nasce il conflitto e da esso è possibile sottrarsi attraverso due modalità: l’aggressione o la fuga. E’ superfluo dire verso quale opzione si schieri Laborit. Dall’aggressione infatti è possibile uscire solo trovando una soluzione di pacificazione tra gli individui, la quale però – il più delle volte – ufficializza un rapporto di dominanza da cui scaturiscono le frustazioni sia del dominante (timoroso del rischio di una sottrazione di tale ruolo) che del dominato (alla continua ricerca di un’inversione delle dinamiche del rapporto). Attraverso la pacificazione si crea ciò che vi è di più deprecabile nel mondo, perché l’individuo viene immesso su di un costipato scalino della scala sociale contro il quale a nulla vale la ribellione: se condotta da un gruppo questa non farebbe altro che risancire un nuovo ordine gerarchico, se effettuata dal singolo non produrrebbe altro risultato se non un atroce fallimento per il suo soccombere nei confronti del gruppo dominante. Di qui il nucleo tematico dello studio e il suo connesso elogio.
La fuga diviene quindi l’unico mezzo per sfuggire agli stimoli nocicettivi, un comportamento che asseconda a pieno la logica della sopravvivenza, il solo modo per sfuggire quegli automatismi culturali che plasmano l’uomo sin dalla sua nascita, comprendono le arroganti competenze tecniche e i codici etici a guida della sua azione, finendo in fondo per soffocarlo e privarlo della sua componente vitale- libertà.
Nell’ambivalenza della scelta fuga-aggressione si può anche presentare il caso – adottato in situazioni di grave pericolo – in cui l’uomo ritenga inefficaci entrambe e prevalga un meccanismo degenerativo che inibisce l’azione e, producendo corticoidi, determina scompensi del sistema immunitario. È la deriva massima che un uomo può rischiare e va vinta attraverso la fuga: per Laborit le soluzioni del benessere risiedono perciò in un ritiro dal mondo non simile però all’evasione nei paradisi artificiali – colpevoli di rendere il quotidiano ancora più insostenibile o generare psicosi – quanto piuttosto identificabile in un allontanamento in uno spazio dove non attecchisce il meccanismo di inibizione dell’azione. La fuga migliore per Laborit è in sostanza nella creatività espressa dall’arte grafica, dalla poesia, dalla letteratura o dalla scienza, in cui non esistono nè la competizione nè il rispetto dei dettami della società, ma si è liberi di “sfogare” i propri determinismi senza l’ostacolo di alcun progetto altrui.
Il saggio può così assurgere a vademecum dell’uomo moderno, disorientato, rancoroso e schiacciato dalla logica della dominanza; attraverso le parole di Henri Laborit le ferite guariscono, i contesti socio-economici non assomigliano più a cortine di ferro e si riscoprono strumenti per poter realizzare ciò che spesso resta inespresso. Si rischia in questo modo di giudicare l’autore come un bieco riduttivista dei sentimenti, ai nostri occhi pur sempre puri e nobili, ma sarebbe considerazione superflua (e secondaria) rispetto al tentativo più riuscito di ridimensionamento di un ormai ridicolo antropocentrismo.