Che cos’è una discrasia? Semplicemente “cattiva mescolanza”, “cattivo temperamento”. È un termine medico che, presa a prestito la definizione riportata nell’enciclopedia Treccani, secondo la dottrina umorale ippocratica indica lo squilibrio nella composizione o temperamento (crasi) dei quattro umori dell’organismo umano, che caratterizza e condiziona ogni stato morboso.
Il termine discrasia è stato recentemente usato in letteratura dal poliartista di respiro internazionale Giovanni Fontana, poeta verbovisuale e sonoro, performer, autore di romanzi “sonori”, poesie lineari e pagine di critica. Ma qual è la cattiva mescolanza, il cattivo temperamento? Si possono individuarli, con neomorfismi e sofismi, anche in questo volume, Hic (2021, pp. 76, € 14,00, ordinabile presso l’editore: https://www.bertonieditore.com/shop/it/libri/910-hic.html…), appena pubblicato nella collana di poesia verbovisuale “Contrappunti” dall’editore Bertoni di Corciano (PG), dove Fontana ci presenta sessanta poesie visuali in b/n. Termini che possiamo comunque racchiudere in una sola parola, come ci suggerisce Marcello Carlino: squilibrio.
Un’alterazione, una disfunzione intermediale che riorganizza i materiali e che indica nuovi punti di equilibrio. Insomma, quando parliamo di discrasie, parliamo «di scritture non protocollari, di squilibri, di fusione di livelli che si riallineano sul piano della sonorità. È la vocalità che riassetta la crasi» (afferma G. Fontana, trattando delle sue performance). Dov’è, dunque, la discrasia in queste poesie visuali? Secondo Fontana nella perdita di equilibrio del mondo, “nell’acqua al setaccio”, “la politica infinitesimale”, “la pressione globale”, “il collasso” del linguaggio creativo, “parole disabili”, disabilitate dal capitalismo e dal liberismo; ecco allora il suo modo di sovvertire i protocolli letterari e non letterari, fino a fondere la poesia con la prosa e con la critica, per farla diventare metacritica, scrittura paramusicale, pretesto performativo, coreografia.
Quella di Fontana è una chiara volontà (anche se rischiosa, ma senza rischio non c’è poesia) di alterare gli equilibri convenzionali, le categorie precostituite, i generi, ecc. Ma quella che è la “cattiva mescolanza” per occhi istituzionali, per Fontana «è riorganizzata in un flusso incalzante: flusso che risponde alle strutture ritmico-sonore che tirano in ballo la vocalità e, pertanto, le chiavi intermediali della performance»: insomma, turbativa e alterazione di modelli, ma per ricercare nuove configurazioni
nell’intermedialità. Analogamente in queste tavole di Hic (dal latino “questo”, ma anche “qui”): «Qui il corpo. Qui i luoghi del corpo. Qui gli sguardi e le attese. Qui le forme. Spesso contorte. Talvolta nascoste. Disgregate. O riorganizzate in viluppi plastici che implicano enigmi. Qui i grumi di parole che questi corpi pronunciano o subiscono. Parole-rumore talora avvolgenti. Talora disperse nelle pieghe. Qui un viaggio del corpo. Un viaggio sul corpo. Dentro gli umori del corpo. Qui. Alcuni corpi si dissolvono. Altri piombano duri e pesanti. Qui le metamorfosi. Qui l’incubo erotico di Circe. Qui sirene e angosce. Offerte deludenti. Cosce tornite e labbra frementi. E ci sono corpi di scarto. Placcati dall’ingiuria del mercato. Qui c’è il corpo erotico delle merci. Corpi che vanno. Corpi che vengono. Corpi esposti. Corpi nascosti. E ci sono corpi che non tornano. Corpi di scarto. Corpi-oggetto. Corpi affabulanti. Fascinosi o disperati. Corpi sconvolti. Stravolti. In risvolti subumani. Corpi senza nome. Ma qui. Come sempre accade. L’immagine del corpo è luogo di relazione tra mente e mondo» (G. Fontana, Nota dell’autore, p. 71).
Prima di approcciarci alla lettura e visione di questo volume (in quanto la poesia verbo visuale si legge e si vede) è bene specificare che il termine discrasia, ossia perturbamento, non è nuovo in letteratura. Lo troviamo, per es., citato alla fine del Trecento da Filippo Villani, nel commento allegorico alla Divina Commedia di Dante: «sanitas sine discrasia». Tornando ai tempi moderni, nell’Ottocento lo troviamo ne Le mie prigioni di Sivio Pellico e ne I Viceré di Federico De Roberto. «Lo scorbuto, negli anni precedenti, aveva fatto molta strage in quelle prigioni. Il governo, quando seppe che Maroncelli era affetto da quel terribile male, paventò nuova epidemia scorbutica e consentì all’inchiesta del medico, il quale diceva non esservi rimedio efficace per Maroncelli se non l’aria aperta, e consigliava di tenerlo il meno possibile entro la stanza. Io, come contubernale di questo, ed anche infermo di discrasia, godetti lo stesso vantaggio» (S. Pellico).
Dunque si tratta di turbamento, di alterazione. E approcciandoci poi a sfogliare questo volume, ecco che davanti a noi si apre un mondo di discrasia visuale, dove la peculiarità è data proprio dall’alterazione dell’apporto verbale, con parole in tondo, in corsivo e a caratteri cubitali. Operazioni analoghe a quelle che Fontana riserva alle sue performance. Più specificatamente chiamando in soccorso ancora Carlino si tratta di una intermedialità tra linguaggi che rientra in quello che Fontana indica come processo epigenetico: «Percorrendo questa strada, si arriva ad una concezione del testo come testo integrato, come politesto in risonanza, come ipertesto sonoro multipoietico, come ultratesto trasversale che vive di polifonie intermediali e interlinguistiche, basato su linguaggi d’azione che non siano la mera sommatoria delle lingue sussidiarie che vi partecipano […]; pre-testo in quanto luogo da trasfigurare, pre-testo in quanto primo territorio d’azione da ri-perimetrare, in termini di spazio e di tempo, con il corpo […], con gli oggetti […], con il suono […], con l’architettura […], con i supporti tecnologici […], con il rapporto con l’ambiente […]. Si potranno ricercare in ambito performativo intermediale nuovi rapporti con le forme del testo, con l’intenzione di costruire una poesia che sia multidimensionale e pluridirezionale, multivalente e pluripotenziale, policentrica e multilaterale, poliritmica e multisonante».
Traducendo in parole povere, una linea sottile traccia lineamenti di linguaggi diversi, di scritture diverse: al collage di figure femminili e alle scritture da amanuense, si sovrappongono parole digitalizzate, distorte e dilatate, per una creazione di suoni diversi ma intercomunicabili, figuranti e trasfiguranti, ma senza stabilizzarsi mai: insomma, “parole a sconcerto”.
Dal punto di vista dello stile di questa scrittura fontaniana è un po’ azzardato parlare di un taglio (o di un orientamento), ancor più se specifico, non già per la contaminazione di generi, ma per la rinnovata semantizzazione. Quasi delle suite: note su pentagrammi dilatati, ora ondulanti, ora a lacerti come le parole che si sovrappongono, aprono voragini su immagini da rotocalchi per un’apertura surreale e grottesca al significante di un “flusso della contaminazione inquietante” (cfr. Fontana) che si tiene, però, abbastanza lontano dagli slogan della storica poesia visiva.
Dunque, da queste poesie si sprigiona una poeticità accattivante, tra l’ossessione di rompere il guscio dell’inerzia e dell’inconosciuto, dove il naufragare in mari burrascosi è una condizione primaria, ma che non spaventa minimamente Fontana, che è un acrobata del linguaggio, di distassie folgoranti e tarsie, della rivelazione del paradosso, della divaricazione del significato, degli slittamenti nella sonorità, tra rischi e azzardi per una realtà altra da questa insudicia che siamo costretti a vivere: la scrittura di Fontana “svuota il sacco” dagli scenari possibili e devastanti, dispotici, ma è troppo accelerata e fuori dal senso comune questa maestria per le aspettative della comprensività massificante.
E non resta che resistere sembra suggerirci Fontana, mettere in campo un antagonismo socio-politico, rappresentazioni mentali; una pars destruens di baconiana memoria per meravigliare e stupire, per stravolgere non prima di averlo negato il significato del vecchio sapere.