Quest’anno cade il decennale della morte di Franco Capasso (Ottaviano, 1934 – Pompei, 2006), poeta con una produzione ultratrentennale, uno dei poeti più importanti che Napoli abbia avuto negli ultimi anni, ma che ha raccolto ben poco per quello che ha dato. Una dozzina di volumi pubblicati: Punto barometrico, Orme sul lago salato, Febbre, etc. La lontananza forzata dalla sua terra (si era trasferito a Terracina (LT) per motivi di lavoro), l’ha sempre vissuta come una condizione di esiliato che ha minato lo spirito di questo poeta, quasi autodidatta, che ha fatto del corpo, cioè della materia, e della sofferenza interiore, il suo modus operandi, una pazzia linguistica che canta l’istante, l’insofferenza banale della quotidianità, una vita lacerata in una società ostile: «Capasso è il poeta del canto dell’istante e del momento quali energie che urgono dall’esterno e dall’interno (Nietzsche) per mettere alla prova l’elezione di essersi detto “persona poetica”, “essere poetico” insofferente del banale e della quotidianità, del luogo comune, “essere poetico” che si ribella alla ferocia dell’abbandono del pensare e del poetare, che rifiuta la solitudine passiva pur anche per nostro peccato o errore» (E. Bonessio di Terzet, Sulla poesia di Franco Capasso, in «Vico Acitillo 124 – Poetry Wave»).
Temi come fuoco delirio passione dolore, si avventurano alla ricerca della parola che dia una ragione di vita, sia pure tra delusioni e angosce, un rimedio alla negatività della felicità che la vita si diverte a tappezzare sulla nostra strada. Una terapia per il corpo e per l’anima, già a partire dal suo primo volume, Punto barometrico (1976), che troviamo anche nei successivi volumi, per es. in Germinario (1979); Orme sul lago salato (1983); Febbre (1985); Poesie del fuoco (2000).
Temi forti questi della poesia di Capasso che troviamo anche in uno dei suoi ultimi volumi, Miraggi (2003), prefato da Francesco Muzzioli, che apre squarci di luce, tra echi che illuminano il senso plurimo del linguaggio col quale superare le difficoltà che s’incontrano lungo la strada della propria esistenza-memoria: « «qui si rifonda la realtà | la muta tenzone del fuoco | non verrai oltre la porta chiusa | il leone del deserto digrigna | la città assisa sui porfidi | squillanti agonie | di tenebre | aspettando | qui raccolta l’essenza di tutti i fiori | qui la storia si dipana | in un filo di memoria | presso il lago | locuste guerriere/ fanno la guerra al sole».
Ci troviamo di fronte ad una poesia introspettiva, fallimentare, tutta rivolta al negativo che si dipana tra ossimori (acqua/fuoco; tempo/morte; silenzio/voce) e introspezioni psicologiche («Mi formo | Mi raccolgo | Chiamo i fantasmi della memoria | la geografia del mio mondo nascosto»), addensamenti onirici e metaforici per un’analisi memorabile e critica del mondo, sia pure imprigionata in un dedalo senza uscite. Significativi, nonostante si tratti di termini retorici, sono gli accostamenti tautologico-ripetitivi, (rosso fuoco; colombi e colombi; fiori & fiori; uccelli & uccelli; nero più nero; ascolta l’ascolto…), gli enjambement («con passo rapido | di vento | più ravvolgente | dell’ombra») che portano in superficie il magma del contrario («Sepolte son tutte le cose che guardano innanzi | Sepolte son tutte le cose che guardano indietro»), qualche ossimoro della memoria (mute voci; voci del silenzio), l’altro da sé, ricordi del proprio quotidiano deformato dagli eventi o l’utilizzo di entità naturali viventi (elitre, mosche, ragni, gechi, rane, grilli, zanzare, farfalle), non per vocazione neoromantica ma come oggetto di ricreazione.