(Adnkronos) – “Con un rene solo si vive benissimo” e come la cantante e conduttrice Francesca Michielin, che ha raccontato dell’intervento subito, hanno sperimentato la vita con un solo rene almeno “le oltre 4.200 persone che in 20 anni (dati dal 2001 al 2021) l’hanno donato”, senza contare poi tutti i pazienti sottoposti a nefrectomia per altre ragioni legate a patologie e i trapiantati. Lo spiega all’Adnkronos Salute Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri di Milano, nefrologo di fama internazionale.
“La nefrectomia – dice Remuzzi – è un intervento relativamente semplice, può essere eseguito per via tradizionale, laparoscopica o con l’uso del robot. Ai pazienti che fanno il trapianto noi trapiantiamo un rene solo. Pensiamo poi a tutti i trapianti di rene da vivente, in cui il donatore continua la sua esistenza con un rene solo e il ricevente anche”.
“I dati sulla sopravvivenza a lungo termine di chi ha un rene solo vengono proprio dai donatori viventi di rene e la maggior parte stanno bene – illustra Remuzzi – Tutti gli studi disponibili dimostrano che vivono come le persone normali e il rischio di andare incontro a insufficienza renale avanzata è uguale a quello della popolazione generale. Le uniche variazioni”, rilevate nel lungo termine, “sono un modesto aumento della pressione e il passaggio di proteine nelle urine segnalati da diversi studi in una quota minore di persone esaminate. Un rischio accettabile, che può essere controllato e non riguarda tutti – precisa lo specialista – ma un 30% circa dei donatori e dopo molti anni” dalla nefrectomia.
“Sono problemi che si possono prevenire con un accurato controllo della pressione e ci sono dei farmaci che possono ovviare. I lavori più importanti, in definitiva, hanno evidenziato che avere un rene solo, e dunque la donazione del rene, non rappresenta un problema rispetto alla longevità della persona”. Niente rinunce o attenzioni particolari? “No, assolutamente niente – risponde lo scienziato – Vivere con un rene solo significa condurre una vita perfettamente normale per la maggior parte delle persone. Chi è in questa condizione può fare sport, mangiare quel che vuole”, nel caso di Michielin calcare i palchi e andare in tour.
“L’unico rischio è che si ammali l’altro rene, ma in genere non succede. Quindi si può dire che non cambia la vita”, assicura Remuzzi. Il rene, spiega ancora Remuzzi, “è un organo che ha capacità di vicariare e quando se ne toglie uno, il rimanente vicaria la funzione dell’altro. Molto frequentemente, quindi, anche la funzione renale di un rene solo si avvicina molto a quella di due, perché” l’organo rimasto in solitudine a svolgere la sua attività “aumenta di dimensioni, aumenta la filtrazione glomerulare, e così via. Alla lunghissima può determinare uno sforzo, ma la sostanza è che si vive bene.
Noi abbiamo molti più glomeruli di quanti servono: abbiamo circa un milione di questi ‘gomitoli’ che servono per filtrare il sangue. Se si toglie un rene, si rimane comunque con 1 milione di ‘nefroni'”, le singole unità funzionali e strutturali di quest’organo. Un milione “è molto di più di quelli che servono per supportare le esigenze metaboliche di un organismo”, assicura l’esperto. “Basti pensare che se una persona ha un’insufficienza renale e perde una grande quantità di nefroni non se ne accorge. Comincia ad avere dei disturbi in genere quando arriva ad avere solo il 10% di nefroni funzionanti”.
Quanto è importante che persone note, in particolare fra i giovani, portino le loro testimonianze su problemi di salute e le condividano con l’opinione pubblica? “E’ qualcosa che può senz’altro aiutare. Ma è una decisione molto soggettiva parlarne o meno – precisa il direttore dell’Irccs milanese dedicato alla ricerca farmacologica – Ci sono persone che si sentono meglio condividendo un loro problema sanitario con gli altri, può essere terapeutico.
Lo è moltissimo, per esempio, per chi è affetto da tumore: il fatto di sentirsi parte di una comunità che può condividere le proprie angosce e la propria sofferenza può far sentire compresi e accolti. Ma c’è anche chi preferisce tenersi tutto dentro, chi preferisce che nessuno sappia cosa gli succede fin quando non starà bene.
E’ qualcosa di molto soggettivo e non si può dire se è giusto o sbagliato. Certo, molte volte può aiutare che l’opinione pubblica sia esposta ai problemi di chi soffre e che conosca quello che fa la medicina”. Parlarne, prosegue il ragionamento di Remuzzi, “tante volte vuol dire rendere noti anche i progressi e qualche miracolo della medicina.
Questo è bello e importante: più le persone sono informate, più è facile curarle. Dico di più: non è vero a mio avviso che non bisogna andare su Internet. In Rete si trovano molte informazioni, anche se i social riportano non di rado notizie sbagliate. Ma fare ricerche e farsi un’idea della malattia con cui si ha a che fare prima di andare dal medico, per esempio, non è necessariamente sbagliato.
Aiuta, perché il medico parte già da una persona che ha qualche conoscenza. E molte informazioni che si trovano online fanno riferimento alla letteratura scientifica. Internet è un grande contenitore, c’è di tutto. Ci sono cose meravigliose e cose completamente sbagliate. Bisogna saper scegliere”, conclude.
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