Fino al 30 settembre 2018 le OGR – Officine Grandi Riparazioni di Torino presentano Forgive me, distant wars, for bringing flowers home, la prima mostra personale in un’istituzione italiana del trio di artisti Ramin Haerizadeh, Rokni Haerizadeh e Hesam Rahmanian, di origine iraniana e residenti negli Emirati Arabi, a cura di Abaseh Mirvali. La mostra nasce come sviluppo del Premio OGR assegnato a Rokni Haerizadeh durante l’edizione 2017 di Artissima.
Forgive me, distant wars, for bringing flowers home non vuole essere una retrospettiva o una generica presentazione dell’opera degli artisti, quanto piuttosto una dimostrazione in situ di come Ramin Haerizadeh, Rokni Haerizadeh e Hesam Rahmanian abbraccino e sviluppino in modo eterogeneo la loro pratica artistica. La mostra creata per le OGR, infatti, nasce come progetto site-specific nel senso più letterale della locuzione, essendo frutto di un complesso lavoro di allestimento durato due settimane in cui i tre artisti, usando il Duomo delle OGR – Officine Grandi Riparazioni come atelier temporaneo, hanno messo in scena il loro variegato ed eccentrico mondo grazie a una rodata pratica collaborativa e a un processo creativo che esalta una filosofia di lavoro basata su una realtà condivisa e l’inclusione degli altri.
Negli ultimi decenni Ramin Haerizadeh, Rokni Haerizadeh e Hesam Rahmanian hanno infatti aderito a una filosofia di vita incentrata sulla collaborazione creativa, grazie alla quale le loro pratiche individuali interagiscono e si arricchiscono reciprocamente sia dal punto di vista tecnico che linguistico ed espressivo. Da queste forme di dialogo intessute tra loro e con altri artisti, amici e collaboratori, i tre artisti hanno dato vita a un linguaggio personale che gli permette di lavorare su livelli diversi e stratificati sia dal punto di vista estetico che del contenuto.
Consapevoli che la loro pratica non comprende solo ciò che producono direttamente, ma anche i contributi di altre persone – artisti, falegnami, allestitori, tecnici, light designer – Ramin Haerizadeh, Rokni Haerizadeh e Hesam Rahmanian rifiutano il concetto di autorialità, includendo nelle loro opere tutti coloro che diventano parte del loro processo creativo e produttivo: ognuno partecipa singolarmente alla realizzazione delle loro opere, condividendo con i tre artisti il proprio universo, il modo di pensare e il metodo di lavoro e dando vita in ogni occasione alla creazione di qualcosa di veramente nuovo sotto tutti i punti di vista.
Per questo, con attitudine simile ai membri del gruppo Fluxus, Ramin Haerizadeh, Rokni Haerizadeh e Hesam Rahmanian non considerano le loro opere come opere d’arte vere e proprie: il senso del lavoro non sta nel risultato finale – abbia esso la forma di un oggetto, un disegno o di una performance video – ma nell’intero processo di esplorazione, evanescente ed effimero, che porta a quel risultato.
Forgive me, distant wars, for bringing flowers home si concentra dunque su questo aspetto processuale e inclusivo della pratica artistica del trio, svelandone in qualche modo il dietro le quinte. Parte integrante della loro pratica collaborativa è infatti la creazione di una serie di alter ego – o dastgah, parola che nella lingua farsi significa dispositivo o macchina, e nella musica tradizionale iraniana si riferisce al termine tecnico di matrice melodica – che permettono ai tre artisti di giocare con le loro identità individuali, lavorando su temi legati al linguaggio, allo spazio vuoto, al potere, alla trasformazione, all’appartenenza, al dislocamento, all’esilio, al dolore e alla distruzione.
Trasformandosi in dastgah, gli artisti eseguono un atto continuo e ripetitivo come se fossero macchine per dipingere, con il corpo coperto da un assemblaggio di oggetti. Tali creature – così definite dagli artisti – vivono in video documentari ma anche in performance video che costituiscono opere d’arte in sé: sono personaggi antropomorfi, fitomorfi o zoomorfi, con qualche tipo di limitazione sensoriale o motoria che, secondo gli artisti, permette loro di affinare gli altri sensi. Così, piccole persone con naso e orecchie da roditore, code di pesce o teste di lattuga diventano protagoniste in un mondo irreale che entra nel regno dello spettatore attraverso performance dal vivo o la presentazione fisica delle opere da loro realizzate.
L’idea alla base della creazione di questi alter ego è quella di presentare i corpi degli artisti come ospiti di creature dal regno delle immagini, combinando le reciproche identità in un processo di fusione che permette alle creature di agire secondo i loro specifici bisogni. Reinterpretando la pratica dell’objet trouvé, quando sono creature, gli artisti selezionano, infatti, una serie di oggetti della vita quotidiana per raccontare la loro storia: oggetti logori, malconci o dimenticati vengono reinventati in un mondo parallelo dove acquisiscono nuovi significati, fornendo letture sottili, a volte opache, delle nostre società contemporanee.
Sebbene vogliano attirare l’attenzione sui grandi temi sociali che affliggono la contemporaneità, alcuni dei quali con conseguenze umane devastanti, Ramin Haerizadeh, Rokni Haerizadeh e Hesam Rahmanian non cercano di trasmettere alcun messaggio morale allo spettatore: usando il meccanismo della citazione e della decontestualizzazione parlano dunque con apparente leggerezza di contenuti specifici, dal potenziale anche fortemente drammatico, costringendoci a rileggere e reinterpretare la realtà con nuovi occhi e una nuova consapevolezza. Questo accade con particolare evidenza anche nel percorso della mostra Forgive me, distant wars, for bringing flowers home, articolato in una serie di installazioni e ambienti progressivi in stretto dialogo tra loro.
L’ingresso nello spazio espositivo avviene attraverso Black Hair, una video-installazione costruita come un set cinematografico che permette ai visitatori di interagire con la scenografia del video che stanno vedendo, trasferendo il mondo fantastico creato dagli artisti nello spazio reale della mostra e rendendo sfuocati i confini tra realtà e finzione. Come per effetto di una dissolvenza incrociati si passa al secondo ambiente, Slice A Slanted Arc Into Dry Paper Sky, una mostra nella mostra che gli artisti e i loro dastgah costruiscono in forma fluida e flessibile partendo da una rilettura de Le serve di Jean Genet, contaminando lo spazio con utensili domestici, riordinando compulsivamente la camera da letto di Madame in ogni momento, costruendo come una partitura poetica un ambiente affastellato di oggetti e opere d’arte – tra cui spiccano lavori di Hassan Sharif, Annette Messager, Jean Rustin e James Son Ford Thomas; chiude questo ambiente l’installazione Collected stories by Niyaz and Lo’Bat: una creatura biomorfa, una specie di paracadute-pipistrello dalle ali ricamate che prende vita in modo autonomo e imprevedibile al passaggio dei visitatori.
La serie di lavori su carta Where’s Waldo? – esperimento concettuale in cui gli artisti si appropriano e manipolano attraverso la pittura immagini di cronaca tratte dai media e trasmesse dai notiziari – si affaccia su The Birthday Party, variopinta installazione-pavimento che prende il titolo dall’omonima pièce teatrale del drammaturgo Harold Pinter: il rituale pagano di festeggiamento e purificazione è visibile grazie a un video che accompagna la messa in scena dei resti di una festa di compleanno giunta al termine.
L’ambiente successivo ruota attorno a due diverse installazioni: Individual Practices – archivio di immagini pubbliche e private scattate prima e dopo la rivoluzione iraniana (1978), raccolte negli anni successivi da Ramin Haerizadeh, rielaborate pittoricamente da Rokni Haeridazeh e allestite da Hesam Rahmanian – e Break Free – una natura morta composta di un tavolo, i Fluxkits e una serie di oggetti Fluxus (tutti pezzi storici provenienti dalla collezione privata dei tre artisti, realizzati da artisti Fluxus, che cercavano di resistere la trasformazione dell’arte in merce) in cui lo spettatore è invitato come commensale.
Chiude il percorso From Sea To Dawn, un’animazione – o meglio, un dipinto in movimento – in cui gli artisti costruiscono complessi racconti visivi appropriandosi di immagini tratte dai mass media: dopo aver scaricato e stampato migliaia di fotogrammi tratti da video di YouTube o da varie trasmissioni televisive – ad esempio documentari e immagini di quotidiani e riviste sulla crisi dei migranti e il conflitto siriano – gli artisti intervengono sulle immagini per trasformare i loro protagonisti in creature ibride, incroci di animali ed esseri umani. Da questi disegni emerge un’immagine dell’umanità violenta e mostruosa. Ciò che nasce come filmato documentario o di reportage si trasforma in una complessa allegoria dell’universalità della violenza, coinvolgendo lo spettatore e risvegliandolo dallo stato di assuefazione causato dalla comunicazione di massa.
Forgive me, distant wars, for bringing flowers home è una mostra prodotta e realizzata dalle OGR – Officine Grandi Riparazioni – sotto la Presidenza di Fulvio Gianaria, la Direzione Generale di Massimo Lapucci e la Direzione Artistica di Nicola Ricciardi, con il fondamentale supporto di Fondazione CRT.
La mostra è stata realizzata con il contributo di Alserkal Avenue, Artissima, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e con la collaborazione del Teatro Regio di Torino.
Un ringraziamento speciale a Gallery Isabelle van den Eynde (Dubai), Galerie Krinzinger (Vienna), In Situ Fabienne Leclerc (Parigi).