“E vabbè, bisogna aspettare”. I paesini del Cilento si confermano anche quest’anno ricchi in offerta gastronomica, culinaria e di valorizzazione del territorio nella pletora di manifestazioni e sagre estive che caratterizzano non solo la Campania ma l’intera penisola italiana
Quest’anno ho avuto la fortuna di godere di due serate particolari: La Festa nel bosco a Perito e Vasci, Portuni e Pertose in una delle sue tre frazioni, Ostigliano (Isca dell’Abate e Isca dei Landi sono e altre due). In scena i sapori tipici del Cilento in grado di valorizzare i particolarissimi paesini arroccati tra i monti, popolati da qualche centinaia di abitanti, ma ognuna con una sua anima forte, viscerale, storica. Si tengono entrambi nei primi quindici giorni di Agosto, quindi in due serate distinte si può godere sia dell’una che dell’altra manifestazione.
Perito
Siamo nell’estesa provincia di Salerno, l’uscita è quella di Perito, sulla superstrada del Cilento, quella che passa per Agropoli,Vallo della Lucania, arriva a Palinuro a Sapri.
Mi tocca salire un po’. Una salita direttamente proporzionale al benessere, all’entrata di aria fresca nella testa, nei polmoni e negli occhi. “Ah”! È la prima esclamazione che spontaneamente sgorga a labbra aperte, dopo un poderoso sbadiglio dovuto al viaggio in macchina ed al buio dei tornanti che la rendono accessibile. Respiro subito l’aria del Cilento Antico già ampiamente apprezzata ed amata a Pellare, Stio, Cuccaro Vetere.
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Sono a Perito con un bel gruppo di amici. Siamo suppergiù una ventina. Bisogna prendere il numero. Già salendo al borgo mi accorgo di quanta gente ci sia. “E vabbé, bisogna aspettare”. Il bosco è chiuso e fanno entrare un poco alla volta. Ogniqualvolta si libera un tavolo entra un nuovo gruppo. Aspettiamo. Ed intanto gettiamo uno sguardo intorno a noi. C’è chi rimane a fare da sentinella alla chiamata del nostro numero, coloro che io chiamo gli affamati. C’è poi chi rimane nei dintorni dell’entrata nel bosco, gli sfaticati. E poi ci sono i curiosi che girovagano per le viuzze del paesino. La mia curiosità cade su alcuni mortai in pietra: scopro così che una delle derivazioni del nome Perito viene attribuita proprio a Pirex, la pirite, pyros/fuoco e polvere da sparo perché in loco si costruiva la famosa polvere nera del Cilento. Il centro fu incendiato e distrutto durante la guerra del Vespro e appartenne come molti altri centri del Cilento e Campani a varie famiglie: i Carafa, i Pignatelli, gli Zattara, i Pasca ed infine al barone De Bellis.
Mi fermo a guardare le Chiese, per il mio attaccamento morboso alla loro struttura. Mi fermo sempre a guardarle e non perché io sia credente ma per una sorte di attrazione viscerale. Adoro osservare i finestroni e le vetrate, i rosoni (quando ci sono), gli elementi decorativi interni, l’organon , il materiale della costruzione ed i colori, le rifiniture delle facciate ma soprattutto le figure dei vari Cristi e le rappresentazioni scultoree e pittoriche dei Santi o di scene tratte dai Vangeli. Mi fermo alla Chiesa di San Nicola. Ne approfitto anche per vedere una mostra di artisti cilentani e penso tra me e me se, durante questa settimana dedicata al bosco, ogni sera sarà così piena. La Parrocchiale di San Nicola, patrono del paese celebrato la prima domenica di Agosto proprio in concomitanza con la festa, domina sull’abitato con il suo campanile. Giro osservando il Palazzo Papa-Baldo con la annessa cappella di San Donato, il Palazzo Volpe o palazzo dei sette dottori e mi spingo fino al vecchio centro abbandonato di Perito Sottano con i resti della Cappella di Santa Caterina, antica patrona del paese. Si narra infatti che Perito sia nato dalla distruzione dell’antica Perillo Suttano (Presuttano). La leggenda vuole che che l’imperatore Federico Barbarossa, intorno al 1200, come punizione per la fuga della figlia con un giovane di questo luogo non solo distrusse il paese ma una volta ritrovata la figlia, uccise anche suoi molti cittadini. I pochi fortunati che riuscirono a salvarsi dandosi alla fuga nella macchia e attraverso i campi, si spostarono più a monte costruendo così il nuovo paese che prese il nome di Perito, forse proprio dal vecchio paese perito. Altra derivazione del nome è da attribuire alla coltivazione di pere che si effettuava in quel Casale, quindi Pereto, dal pirus latino anche se questa origine non trova riscontro negli studi del prof. Emilio Gatto che propende per l’ipotesi di un “perì” e “theaomai”, termini greci “contemplare intorno, osservare”.
Mi arriva un “whatsapp”: è il nostro turno. Raggiungo il resto della ciurma e mi ritrovo in una affascinante atmosfera: il bosco mi accoglie con i suoi castagni, attraverso piccoli sentieri, in spiazzetti addobbati con lunghi tavoli di legno. La natura perfettamente rispettata: ti fanno sedere, ti illustrano i piatti e con la coda dell’occhio puoi sbirciare all’interno di casupole in legno tante donne in grembiuli bianchi che impastano i cavatielli. Pasta fresca. Tutt’intorno profumo di arrosto. Mi dicono che cuochi, assistenti, sparecchiatavoli, camerieri, arrostitori e porgivino sono gente del posto, ragazzi e ragazze che offrono la propria disponibilità alla valorizzazione del proprio territorio. Il menù? Antipasto di capicollo e prosciutto insaccati secondo antiche usanze con un tocco di melone, la fresella al pomodoro, i “cavatelli” o le penne con il denso di ragù di castrato, e per i palati più esigenti, aromatici sughi al basilico e boscaiola; salsiccie di maiale e vitello alla brace, il Soffritto di maiale, il “castrato” al ragú, patate fritte, insalate verdi e rosse, melanzane arrostite, la “minestra stretta” (l’antica pietanza di patate e bietole schiacciate e scaldate soffritte insieme) e la coloratissima “ciaula” (la ciambotta di peperoni, melanzane e patate e pomodori), uva e anguria. L’ottimo vino locale e tanta gioia nel cuore.
Ostigliano
Tanta gioia nel cuore e nel palato che è ritornata, o forse non è mai sparita, qualche giorno dopo, a cinque chilometri da Perito. La situazione qui è più tranquilla. C’è meno gente. Siamo ad Ostigliano, nella seconda serata delle sei in programma di “Vasci, portune e pertose”patrocinata dal Comune di Perito ed organizzata dall’associazione Pro-vasci, portuni e pertose. Sono in compagnia di mia madre. Le ho chiesto, curioso, di accompagnarmi. Mia madre adora quando glielo chiedo. La mia dolce mamma. Non sono un mammone per nulla, ormai vivo da solo da molti anni in giro per l’Europa, completamente autosufficiente ed in grado di gestire qualsiasi problema nel miglior modo possibile, sia esso di bucato, di cucina, di pulizia. Siamo in giro per Ostigliano, valorizzato appunto dall’apertura di atri e portoni di antichi palazzi del piccolo centro storico in cui è possibile sedersi e mangiare. Anche qui è obbligatorio fare una fila non molto corta (uso una litote per dire che è lunga nella durata seppur non ci sia ancora molta gente) e pagare anticipatamente ciò che si desidera mangiare segnandolo su una sorta di menu cartaceo stile scommesse sportive. Ho parcheggiato un po’ più fuori e passeggiando fino all’entrata del centro storico ho potuto ammirare le viti pensili che adornano la maggior parte dei balconi. Focalizzo la mia attenzione su un vecchio pozzo e su di una statua dolcissima posta all’ingresso di una villetta: tre bambine sedute su di una panchina quasi a ritrarre quanto poi più tardi vedo nella piazza principale. Il tipico mattone cilentano già comincia ad accogliermi e sembra intimamente abbracciarmi con la sua chiesetta illuminata. E mi da il benvenuto con i suoi molteplici archi. Sono nel cuore di Ostigliano, nelle piazzette che si affacciano nei “portuni”e nei “vasci” delle abitazioni, nei cortili e negli androni di antiche abitazioni signorili o contadine del borgo. Su queste “antiche volte” sono state costruite le abitazioni, come il Palazzo Baratta che si affaccia sulla piccola piazza Santa Sofia. Portoni in pietra caratterizzano il paese. Prima di scegliere l’androne in cui mangiare do anche qui spazio alla mia perenne curiosità . La chiesa parrocchiale, situata sulla sommità dell’abitato, è dedicata a San Giovanni Battista, celebrato il 24 giugno. Si presenta a due navate: la centrale e quella sinistra. A destra, invece, è situata la cappella dedicata al patrono. Nei pressi del fiume Alento sorge la Cappella della Madonna di Loreto. L’effige della Madonna con il bambino all’interno è molto accattivante. Diversa. Ha in sé la durezza del mondo contadino. Fuori dal centro urbano sono ancora visibili i ruderi di un antico insediamento benedettino e tracce di cenobi basiliani.
Sento il mio stomaco battere i colpi della fame ed allora scelgo con mia madre uno dei sette spazi che prima, d’obbligo, ho visionato. C’è quello con gli arnesi tipici del mondo contadino con il suo eloquente scritto “Chisti so li fierri ro fatiaro li vavi nuestri, fatiavano la terra in allegria chini re surore, si mangiavano nu tuozzo re pane e na vranga re fico. Mo li tiembi so cangiati e li fierri so arruzzuti e ‘mbracetati”, c’è quello con la botte gigantesca, lo spazio con il giardino pensile e quello addobbato da viti. Il legno la fa da padrone. I piatti, sono quelli tipici cilentani come i panzarotti (ravioli ripieni di ricotta) al sugo di castro o pomodoro, il castrato al sugo, la salsiccia alla brace, i peperoni e le melenzane arrostite alla brace, il pane cotto nei forni a legna e gli immancabili vicciddi (frittelle) alla menta e salvia. Vino a volontà . Mi hanno detto che la stessa organizzazione a fine ottobre organizza un altro evento dal nome eloquente “Na vranga re castagne e nu bicchieri re vino”. E così viti, ulivi e fichi, le principali coltivazioni dell’economia locale vengono sbandierati e fatti conoscere. I fichi secchi del Cilento, per chi non lo sapesse, sono una prelibatezza unica e meriterebbero un evento di per sé: “A tavola con il fico del Cilento”.
Fioravante Conte