Sono trascorsi vent’anni dalla morte di Fabrizio De Andrè, voce mitica, poeta della nostra storia che ci ha trascinato con lui in direzione ostinata e contraria a guardare il mondo e le sue ferite, a scegliere da che parte stare, a non avere paura degli abissi della coscienza, dei rischi del vivere. Il suo sguardo di poeta e di cantore si è posato sugli ultimi della terra, i reietti, gli esclusi, gli oppressi, ma non per stabilire differenze tra la nostra presunta innocenza e la loro dannazione, quanto per trovare in noi persino quella stessa abiezione, quello stesso dolore, per costruire una fratellanza non pietistica, non determinata da ideologie più o meno assimilate, quanto da una umanità comune, una responsabilità che fa dell’altro lo specchio di noi stessi.
La prima volta che lo ascoltai ero una ragazza sdraiata al sole sulla spiaggia di Fregene, quando ad un tratto, dalla radiolina che mi portavo dietro, la sua voce ha cominciato a cantare “Questa di Marinella è la storia vera/che scivolò nel fiume a primavera/ma il vento che la vide così bella/ dal fiume la portò sopra una stella”. Non lo avevo mai sentito prima, non sapevo chi fosse, ma quella voce con insondabili profondità, graffiante tenerezza, stupefatto dolore, si faceva carico di colpo di tutte le mie inquietudini, le mie domande, i miei sogni. Non credo si possa parlare di De Andrè in termini tecnici, solo professionali, perché Fabrizio è stato per molti di noi, quello che ci ha aperto gli occhi, che ha accompagnato la mia generazione sul filo della scelta di come avremmo voluto essere, che ha reso poetiche e emotive, quindi radicate per sempre e indimenticabili, anche le scelte politiche.
Con lui e dopo di lui quello che fino a quel momento era considerato il mondo basso della marginalità di ogni tipo, è uscito dall’oscurità, non più solo oggetto di indagini sociologiche ma soggetto che trovava in lui le sue parole per esistere, per raccontarsi, per distruggere gli stereotipi e i pregiudizi, per assurgere a universo musicale e poetico di quei giovani che in quegli anni cercavano appassionatamente altri modi di vedere e agire sul mondo.
Eppure De Andrè nasceva in un mondo altro, in una famiglia borghese dentro la quale avrebbe potuto nascondere per sempre i suoi egoismi personali e di classe, però nasceva diverso, anima tormentata di domande, naturalmente solidale coi più deboli, mente vigile, cuore ribelle al potere nelle sue molte forme. Dalle sue prime canzoni, uno sguardo alla sua Genova e uno sguardo al mondo, si affollano personaggi considerati socialmente perdenti e che nei suoi versi e nelle sue note divengono eroi di un’umanità sconfitta che rivendica la dignità della propria voce e del proprio destino.
Come nella Ballata del Michè, “Stanotte Miché s’è impiccato ad un chiodo perché/non voleva restare vent’anni in prigione/lontano da te…”; dove la prigione è idea insopportabile per mancanza d’amore; come nella Canzone di Marinella, dove la bellezza della caducità dei sogni infranti scivola sul fiume “e come tutte le più belle cose/vivesti solo un giorno, come le rose”; come nel Cantico dei drogati, dove la disperazione ripercorre le tappe tragiche di un calvario, “Ho licenziato Dio, gettato via un amore/per costruirmi un vuoto/nell’anima e nel cuore…”; come ne La ballata dell’eroe dove “lei che lo amava aspettava il ritorno/di un soldato vivo, d’un eroe morto che ne farà/se accanto nel letto le è rimasta la gloria/d’una medaglia alla memoria”.
La musica di De Andrè balla con l’amore e con la morte, entrambi momenti fatali e di verità nel flusso a volte inconcludente di inutili stagioni. Ed è un amore che ha carnefici e vittime, che rischia, che soffre, che ci definisce e a volte ci salva. Non importa chi infligga le ferite, se l’amante traditore e tiranno o il tempo che appassisce la passione, come in “Quei giorni perduti a rincorrere il vento/ a chiederci un bacio e volerne altri cento/un giorno qualunque li ricorderai/amore che fuggi da me tornerai…”; o il potere senz’anima che ce lo strappa dalle braccia come in Geordie “Mentre attraversavo London Bridge/un giorno senza sole/vidi una donna pianger d’amore./Impiccheranno Geordie con una corda d’oro/è un privilegio raro/rubò sei cervi nel parco del Re/vendendoli per denaro…” o come ne Il Re fa rullare i tamburi, dove il Re sceglie la sua amante tra le nobildonne di corte incurante che abbia marito, “Addio per sempre mia gioia/addio per sempre mia bella/addio dolce amore/devi lasciarmi per il re/ed io ti lascio il cuore…”.
L’amore come lo canta De Andrè è intenso e impietoso, a volte succube dell’altro fino all’estremo sacrificio come ne La ballata dell’amore cieco, dove l’amante si svena per far felice la sua donna per cui l’amore è solo potere sull’altro “Un uomo onesto, un uomo probo/s’innamorò perdutamente/d’una che non lo amava niente… Fuori soffiava dolce il vento/ma lei fu presa da sgomento/quando lo vide morir contento./ Morir contento e innamorato/quando a lei niente era restato/non il suo amore, non il suo bene/ma solo il sangue secco delle sue vene…”.
L’amore è rimpianto di ciò che abbiamo perduto, come ne La Canzone dell’amore perduto, struggenti versi di nostalgia per un passato che non può tornare, “Ricordi sbocciavan le viole/con le nostre parole/-Non ci lasceremo mai e poi mai-,/vorrei dirti ora le stesse cose/ma come fan presto, amore, ad appassire le rose/così per noi l’amore/ che strappa i capelli è perduto ormai,/non resta che qualche svogliata carezza/e un po’ di tenerezza…”
Nessuna delle emozioni umane, nessuno dei desideri è escluso dal canzoniere del nostro poeta le cui sfumature di voce e il timbro sembrano essersi costruite nella dinamica stessa delle parole e delle note. Emozioni che costruiscono paesaggi, muovono personaggi indimenticabili, dal vecchio pescatore che sfama l’assassino sulla riva del mare alla guardia carceraria che offre il caffè a Don Raffaè e gli chiede consigli, da Bocca di Rosa che vende il suo amore incurante delle beghine che la criticano, a Maria e Giuseppe de La Buona Novella, modesti protagonisti di un miracolo, fino ai due ladroni crocifissi al lato di Cristo che le madri piangono per una morte senza resurrezione, fino a Piero ucciso dal nemico in un campo di grano.
De Andrè sceglie le vittime come protagoniste del suo canto, uccisi in guerra, imprigionati, drogati, prostituiti per le strade del mondo, affamati e umiliati, ma tutti, uomini e donne, nelle sue parole diventano un grido spietato contro la società in cui sono costretti a vivere e che marchia in negativo il loro destino.
Sa di andare in direzione ostinata e contraria rispetto al sistema, sa come vivono e muoiono quelle “anime salve”, sa che la storia è colpevole del loro destino ed entra nella storia del nostro tempo per dirci con Canzone del maggio “Anche se il nostro maggio/ha fatto a meno del vostro coraggio/Se la paura di guardare/vi ha fatto chinare il mento/Se il fuoco ha risparmiato le vostre Millecento/anche se voi vi credete assolti/Siete lo stesso coinvolti…”. Straordinaria capacità di vedere, nell’assoluzione che gli ignavi fanno di se stessi di fronte alle chiamate della storia, il baratro che li rende ignari della realtà ma non per questo meno colpevoli. Coraggio di raccontare l’estremismo di una reazione di fronte all’ingiustizia del mondo con i versi de Il bombarolo “Potere troppe volte/delegato ad altre mani/sganciato e restituitoci dai tuoi aeroplani/io vengo a restituirti/un po’ del tuo terrore/del tuo disordine/ del tuo rumore…”.
Con De Andrè viaggiamo tra anime, corpi e terre. Ha cantato la sua Genova che per prima gli ha mostrato il volto dell’emarginazione durante le sue scorribande giovanili per la città vecchia, ha cantato nel suo dialetto ligure, incomprensibile a volte nelle parole ma mai nelle vibrate emozioni che trasmette. Ha cantato quella Sardegna in cui, a metà degli anni ’70, è andato a vivere alla ricerca del contatto con la natura, di una vita più autentica. E l’ha cantata anche in gallurese. Dopo il suo rapimento da parte dell’Anonima sarda avvenuto la notte del 27 agosto 1979, De Andrè dedica un intero disco alla sua drammatica esperienza, conosciuto come L’Indiano, dalla figura di nativo americano sulla copertina. In vacanza all’isola, quella notte stessa, la mia macchina con molte altre viene fermata per un controllo sulla statale vicino alla tenuta dell’Agnata dove Fabrizio viveva con la sua famiglia. Così venimmo a sapere dell’accaduto. Ricordo dolore e smarrimento. E ricordo, una volta liberato, le sue parole di pietà per i suoi carcerieri. Così come il suo rifiuto a costituirsi parte civile contro gli autori materiali del sequestro ma solo contro i mandanti, persone agiate e ben inserite socialmente.
Quei banditi sono per De André anch’essi vittime, come gli Indiani d’America sterminati in un genocidio infame, con i quali costruisce per tutto il disco un parallelismo giocato sul filo della compassione per un comune destino di oppressione e marginalità.
Ed è lì che de Andrè è divenuto per me un uomo capace di saldare l’etica delle sue canzoni con l’etica della sua vita. Così lo ascolto e lo ricordo nella magia delle sue parole e della sua musica, ammirata della sua arte e della sua integrità.