L’area in cui sorge l’Etna e le zone sommerse adiacenti sono caratterizzate dalla presenza di faglie “trascorrenti” (ovvero con un movimento orizzontale) di scala regionale, la cui attività ed interazione ha creato le condizioni per il trasferimento di magma dalle profondità fino in superficie. È quanto emerge da uno studio condotto da un gruppo di ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS), appena pubblicato sulla rivista “Scientific Reports” di Nature.
“A partire da almeno 500.000 anni fa”, spiega Marco Firetto Carlino, ricercatore dell’INGV e primo autore dell’articolo, “l’attività tettonica di un’ampia zona di faglia nella parte meridionale del vulcano (tra Acireale ed i dintorni di Adrano) ha portato alla formazione di zone di “apertura” della crosta terrestre. Queste hanno rappresentato le vie preferenziali per la risalita dei magmi emessi attraverso fessure eruttive diffuse lungo la faglia. Tali fessure sono state individuate tra Aci Trezza e Adrano e caratterizzano le prime fasi dell’attività etnea. La continua deformazione trascorrente lungo la medesima zona di faglia e, successivamente, anche lungo ulteriori zone più a nord, nonché la loro reciproca interazione, ha portato alla migrazione del vulcanismo e, nel contempo, alla chiusura repentina dei condotti eruttivi precedentemente attivi. Questo fenomeno spiega il processo di migrazione del vulcanismo dal versante meridionale (attivo da almeno 500.000 a circa 200.000 anni fa), fino all’area della Valle del Bove (da circa 100.000 a 70.000 anni fa) e agli attuali centri eruttivi (da circa 60.000 anni fa ad oggi)”.
Trasferimento del magma in superficie: quali sono i meccanismi
Comprendere i meccanismi attraverso i quali il magma viene trasferito attraverso la crosta fino alla superficie e, dunque, indagare le relazioni che intercorrono tra tettonica e vulcanismo in un’area interessata anche da elevata sismicità, rientra tra le principali competenze dell’INGV.
A partire dal 2014, infatti, l’Osservatorio Etneo dell’Istituto (OE-INGV) ha intrapreso un’attività di acquisizione, elaborazione ed interpretazione di immagini della crosta terrestre, ottenute attraverso l’analisi e la relazione tra dati sismici ad alta risoluzione, dati magnetici e gravimetrici, acquisiti al largo del vulcano Etna. Tale approccio multidisciplinare ha permesso di indagare, con un dettaglio mai raggiunto in precedenza, le porzioni sommerse del versante sud-orientale etneo, dove sono state rinvenute le più antiche manifestazioni vulcaniche. Proprio tale versante rappresenta un’area chiave per comprendere l’evoluzione nello spazio e nel tempo del vulcanismo in questa regione.
“I fenomeni deformativi legati alla tettonica di tipo trascorrente non solo hanno determinato il vulcanismo etneo e la sua distribuzione nello spazio e nel tempo”, aggiunge Firetto Carlino, “ma hanno anche determinato la formazione e l’attività delle strutture tettoniche attive che interessano il versante orientale dell’Etna, caratterizzato da elevata sismicità, anche recente (si ricordi, ad esempio, il terremoto di magnitudo Mw 4.9 del 26 dicembre 2018 che ha interessato l’abitato di Fleri e le aree circostanti), e da un importante fenomeno di scivolamento gravitativo di fianco. Quest’ultimo risulta essere strettamente influenzato dalla configurazione strutturale del basamento del vulcano, profondamente deformato dal sistema di faglie riconosciuto proprio in questo lavoro”, conclude il ricercatore.