Poesia e fotografia
Errante di Emiliano Cribari è la nuova raccolta di poesie dello scrittore edita daAnimaMundi .
Ogni parola di questo libro è nata da una suggestione che è germogliata nell’anima dello scrittore nel corso delle sue lunghe e solitarie passeggiate fra le montagne dell’Appenino.
La natura evoca ricordi, lascia tracce e chiede lunghi silenzi. A colmarli c’è il rumore dello scatto fotografico, istantanee in bianco e nero che congelano un momento e invitano a riflettere ed imparare. Il libro di poesie di Emiliano Cribari, è caratterizzato da fotografie in bianco e nero che si intervallano alle parole e che documentano anche un’ Italia nostalgica e tristemente abbandonata.
Errante di Emiliano Cribari è un diario di viaggio che ripercorre migliaia di chilometri a piedi in una natura affascinate, ricca di poesia e suggestioni.
Emiliano Cribari è nato a Firenze nel 1977. Poeta, fotografo, camminatore. Ha pubblicato: La cura degli istanti (Transeuropa, 2019), La vita minima (AnimaMundi, 2020) ed Errante (AnimaMundi/Emuse, 2022). Vincitore di premi e riconoscimenti nazionali e internazionali, nel 2019, come Guida Ambientale Escursionistica, dà vita alle “camminate letterarie”, escursioni di gruppo caratterizzate da letture poetiche. Collabora con alcune riviste, per le quali scrive soprattutto su tematiche legate al cammino e allo spopolamento delle aree interne.
Abbiamo avuto il piacere il intervistare Emiliano Cribari a cui abbiamo chiesto qual è il suo rapporto con la poesia e quali sono le caratteristiche della sua nuova raccolta.
Errante di Emiliano Cribari
Errante è la sua terza pubblicazione. Che rapporto ha con la poesia?
Scrivo a singhiozzo, fin dai tempi del liceo. Con lunghissime pause e impetuose ripartenze. Se prima di scoprire la “poesia di movimento”, tipica di Errante, la scrittura mi ha aiutato più che altro a definirmi, a tentare di sciogliere dubbi e incertezze, da qualche anno la scrittura è diventata più che altro uno strumento per tradurre l’incanto dello sguardo. La costante tra i due mondi, tra i due metodi, è lo stupore che nasce all’arrivo di ogni nuova poesia, figlio illegittimo della paura che dopo la nascita di una poesia non ce ne sarà mai un’altra. E invece accade – in qualche modo finora è sempre accaduto – che una scintilla improvvisa origini l’informe materia di un primo verso.
Ci può parlare brevemente delle sue ultime due pubblicazioni?
La vita minima (AnimaMundi, 2020) è nata una mattina d’inverno: camminavo su un crinale nebbioso, immerso fra i faggi, riflettendo proprio sulla natura della parola poetica: da dove arriva, come e perché. Le poesie non si cercano / si levano come gli uccelli / tra i faggi d’inverno / quando la nebbia apre il sentiero /al primo uomo del mattino. Scrissi questo. Poi, complici alcune letture ma soprattutto una lunga immersione in natura, arrivò il resto: poesie asciutte e minimali, intarsiate, alcune estremamente brevi. Errante (AnimaMundi | emuse, 2022) approfondisce il legame con la terra: sono pagine sudate, infangate, odorose; pagine che ansimano, che riposano (senza posa) all’ombra di grandi alberi maestri.
Errante l’ho scritto quasi tutto camminando, registrando ogni parola sotto forma di voce proprio perché non volevo che i versi inciampassero nelle soste necessarie alla scrittura, ma che al contrario fossero assonanti con i passi e con il respiro.
Una delle caratteristiche di Errante che mi ha colpita particolarmente è la mancanza dei titoli. È così per tutte le poesie che scrive oppure questa ultima pubblicazione è un’eccezione?
Raramente ho utilizzato titoli. Soprattutto negli ultimi tempi, ciò che posso togliere lo tolgo. Sarà che ho sempre avuto l’impressione che i titoli sottraessero spontaneità alle poesie. Che apparecchiassero troppo la tavola. Io credo che le poesie non debbano essere mai una sola cosa, mai definite. Invece il titolo scandisce, inchioda, può dire fin troppo di una poesia. Preferisco lasciarle a se stesse, le poesie, in balia dello stupore, dell’attesa di chi legge.
Ogni parola di Errante è nata camminando, fra le montagne dell’Appennino e le poesie sono intervallate da bellissime fotografie in bianco e nero. Perché ha scelto questo suggestivo connubio, parola e scatto fotografico?
Io sono cresciuto più in mezzo alla fotografia che alla poesia. Mio nonno paterno è stato un bravissimo fotografo, donderiano, un umanista, un vero fotoamatore (nell’accezione migliore del termine, cioè colui che ama la fotografia). Quella che io amo è una fotografia in bianco e nero, quindi una fotografia che scarnifica, che cerca il minimo, che sottrae, che non si maschera; una fotografia che non prevede fotografo e soggetto ma due esseri umani; una fotografia che non presuppone in alcun modo una finzione scenica; una fotografia intesa come attimo e istinto, ma anche matematica della forma. Mi viene molto più naturale fotografare che scrivere.
La fotografia è una sua grande passione e lei da anni documenta un’Italia solitaria e abbandonata. Perché ha scelto questo tipo di ambientazione? Che cosa la attrae?
Mi attrae la nostalgia, la possibilità di un ritorno. Non ho mai pensato che un paese spopolato fosse un paese morto, finito. Quando il bello si consuma, resta sempre una lezione. Nei primi anni del dopoguerra, in Italia vi fu un esodo di massa (che riguardò le aree interne del Paese) comprensibile, se consideriamo le condizioni in cui vivevano allora molte persone. Non potevano certo sapere a cosa sarebbero andate incontro. Oggi che lo sanno, che quel modello (quello del “produci, consuma crepa”) è evidentemente fallito, questi luoghi nei quali cammino, prego, che ascolto e che osservo con tutto me stesso, questi luoghi che fotografo e grazie ai quali traduco in parole le mie emozioni, sento che hanno tantissimo da dire, sono lezioni silenziose da impartire: architettoniche, storiche, culturali.
Sono testimonianze di un modo più efficace, più lento di stare al mondo, di un mondo più sensato e sostenibile. In pochi anni abbiamo fatalmente distrutto millenni di storia, fatta di gesti, abitudini, credenze, anche sacre. Viviamo in un mondo scandalosamente rasoterra, bestemmiante, orgogliosamente orizzontale, puramente materiale. Che senso ha un’umanità come questa occidentale, che non prega, che non si sacrifica, che non si sforza?