Jokanaan è l’ossessione della regina Erodiade, ossessione amorosa per il profeta che parla di un Dio a lei incomprensibile, disumano, nell’imporre il suo no alle ragioni dell’amore carnale. L’amore per il Battista è la libera scelta della donna Erodiade, che nella vita ha inseguito il potere usando ciò che la Storia le concede, il suo fascino e il sesso.
Innamorata e rifiutata più volte e con spregio da Giovanni, ne chiede la testa ad Erode, attraverso la figlia Salomè, spingendola a sedurlo nonostante Jokanaan le avesse chiesto di preservarne la purezza e di proteggerla.
Nel monologo di Testori, Erodiade è protagonista unica, regina sola, in scena a dialogare con Jokanaan morto, a raccontare, lucida e folle, il suo amore per il martire senza amore: “T’ho amato così come potevo; così come dovevo”…e così doveva affinché si realizzasse il martirio e il desiderio di lui di ricongiungersi al suo Dio. Pedina inconsapevole del disegno divino, Erodiade è, per Testori, vittima dello stesso e carnefice designata.
Lo spettacolo inizia nello scuro totale con la voce del regista a declamare la poesia “Nel tuo sangue” di Giovanni Testori.
Dal buio della sala e della nera scenografia, d’un tratto emerge il bianco di un grande disco, che ruotando su se stesso ci svela un’Erodiade immobile, crocifissa al destino di Jokanaan, regina abbigliata di un nero novecentesco e una corona di spine che le ha ferito il viso, un rimando all’iconografia del volto del Cristo, rigato di sangue, dopo il sacrificio della croce.
E’ attraverso la voce, la voce di Imma Villa-Erodiade, che avviene la narrazione e la nostra fascinazione.
Da lei siamo divisi da un velatino, la quarta parete, a ricordarci il gioco del teatro e del teatro nel teatro, quando cadrà di botto ai piedi di un Erodiade non più regina, discesa dalla croce a dirci che di teatro si tratta, rivolgendosi al pubblico in sala e inveendo contro l’autore-Dio, del quale è costretta a subire la volontà.
Carnefice di Jokanaan, vittima essa stessa di un disegno che non può controllare, consapevole della sua fine imminente, in un gesto di identificazione con la sua vittima, Erodiade offre lo spettacolo della sua stessa testa adagiata su un piatto d’argento.
“Adesso, però, mi chiedo se a distruggere la mia certezza e la mia forza è stato davvero quel che tu mi dicevi o, invece, il furore di un figlio, che al contrario del tuo Dio, cercava ogni mezzo per tornare al più presto nel grembo della propria madre…”
E qui, allora, azzardiamo la scena metateatrale come possibile grembo materno, e il velatino come membrana che lo separa dal fuori.
Accurato, magnifico, il lavoro sulla voce operato dal regista e dall’interprete su un testo che poco o nulla concede all’azione. La voce di Imma Villa e la sua dolente compostezza rendono la complessità di un personaggio, che pian piano, dopo la furia iniziale, fa emergere un sordo, profondo, dolore per quel che le resta: il nulla.
Non il potere, né la corona, né l’amore di Salomè e dell’amante.
Erodiade ha perso tutto, conscia di aver operato per perderlo. Non ha mai amato la figlia, che ora, per gioventù e bellezza, attira gli sguardi del Re. L’ha usata per i suoi fini, ma Salomè non aveva bisogno del suo aiuto per infilarsi nel letto di Erode ed ora tra le sue braccia la rinnega, chiedendone, novella Elettra, l’allontanamento e la morte.
Tutto questo ascolta, non vista, Erodiade, colei che ha voluto la testa del Battista ergendosi a Dio, un Dio in cui non crede, come non crede nella sua promessa di vita altra.
Dopo la morte c’è il nulla e ad esso si consegna, ritrovando se stessa e la sua forza, nel darsi deliberatamente la morte.
Ora le luci di scena sfumano, stringendosi sul suo volto fino al buio totale dell’inizio e verso il nulla.
Persuasiva, proteiforme, elegante come sempre e dai ritmi perfetti, la regia di Cerciello, assecondata da un Imma Villa capace di reggere, sola in scena, un testo poco teatrale, che le impone l’immobilità del corpo, affidando alla mera voce il racconto della tragedia, l’espressione della complessa personalità di Erodiade.
Indimenticabile la sua interpretazione, non urlata e che, attraverso le intonazioni della voce, restituisce, nel profondo, il vissuto e il sentire contraddittorio del personaggio, lasciando una scia d’ammirazione già nostalgica.
Suggestive ed evocative nei numerosi elementi della simbologia cristiana presenti, le scene di Roberto Crea.
Costumi Daniela Caincio
Disegno luci Cesare Accetta
Musiche originali Paolo Coletta
Produzione Elledieffe, Teatro Elicantropo