L’ultimo volume di poesie di Francesco Aprile, giovane poeta emergente (è nato a Lecce nel 1985) sia sul piano lineare sia sul piano visuale, s’intitola Entropia del fuoco, ventiquattro poesie che si avvalgono dell’introduzione di Cristiano Caggiula, dove emerge l’amore per la propria terra, dove amore sta per luce di una rivalsa, di un cambiamento, e il fuoco del titolo rappresentante di un linguaggio materico per una metonimia del senso che tenta di riscattare con la ragione dell’immaginario una terra che ha sempre subito soprusi e trascuratezze dal potere costituito fin dall’antica Grecia. «La marca della luce ha qualità corporea se il corpo | del calore fa lenza di luna chiara, morbida, sulle | maglie della pelle. Le fessure dove infila il mondo, | lo sguardo, hanno umore bianco di violenza bianca | tenace quando l’occhio è chiuso e apre le sue porte | al giorno…» (p. 17). C’è una connessione intima di dolore tra il corpo del linguaggio e la martoriata terra, un connubio che spesso incanta, da un lato con uno smarrimento-rassegnazione, antico appunto, dall’altro con la consapevolezza che «i rapporti umani si danno poveri come la terra, e | la foglia conserva secoli di feroce silenzio».
Nel suo ultimo volume di poesie, Entropia del fuoco, recentemente pubblicato da Eureka Edizioni di Corato (BA, 2016) nella collana CentodAutore, a cura di Rossana Bucci ed Oronzo Liuzzi, l’elemento principale mi pare l’amore per la propria terra, specie se stravolta non dagli eventi ma dall’ipocrisia delle persone. Qual è il messaggio di questi testi poetici?
Entropia del fuoco rappresenta un “secondo capitolo” di un discorso poetico attorno al Mediterraneo, nella continua lavorazione di una lingua meridiana, che segue ad un primo lavoro edito nel 2015. L’opera vuole mantenere uno sguardo critico aperto sull’attualità del Mediterraneo: le morti giornaliere di chi cerca di attraversare il mare, un Sud non idilliaco stravolto dai rifiuti e dall’inquinamento, rapporti clientelari, impatto e prospettiva dei media su questa realtà.
Sembra di trovarsi di fronte ad un linguaggio distopico, ai confini di un’apocalisse. Lei, oltre ad esse un critico preparato, nonostante la relativa giovane età, è soprattutto un poeta verbo-visuale. Come concilia le due discipline, cioè la poesia lineare e quella visuale? C’è un nesso tra esse, e quale? Cosa ne pensa dell’attuale poesia, sia verbale che visuale?
Poesia visiva e lineare poggiano, nel mio caso, sui medesimi costrutti teorici. A differenza di una scuola di pensiero che considera banale l’allargamento della scrittura ad una sfera extra-letteraria, preferisco rifarmi alle teorie sui media, le quali guardano all’intreccio fra questi come qualcosa di potenzialmente nuovo e forte. Da questo punto di vista il discorso sui media non sembra essersi esaurito, in quanto si inscrive in un dominio in espansione dialettica e conflittuale. A partire da ciò poesia visuale e poesia lineare si sviluppano nell’ottica dell’evoluzione mass-mediale, della sostanza informazionale del mondo, nel tentativo, inoltre, di pervenire alla rilettura di mezzi che potrebbero risultare datati, ma nell’effetto dei media sugli attori sociali acquisiscono nuove possibilità di sviluppo. Nelle recenti esperienze verbo-visive e lineari l’utilizzo delle nuove tecnologie ha prodotto, in alcuni casi, dei salti paradigmatici (si vedano gli ultimi sviluppi della poesia concreta, ad esempio Nico Vassilakis), dall’altro si registra un reflusso, un periodo di stanca e reazione e di cui è in parte causa la sovrapproduzione dovuta al web. Trovo molto interessante il percorso di Giovanni Fontana, tutto, ma qui vorrei soffermarmi sulle sue ultime declinazioni. Da Questioni di scarti a Déchets, Fontana impatta un radicale cambiamento sociale. Non siamo più nel periodo in cui fenomenologicamente gli oggetti rappresentano un evento, uno scontro (anni ‘50/’60), ma l’indebolirsi del soggetto, non più il suo ostinarsi, ha prodotto un contesto di oggetti malleabili, fluidi che si intrecciano in cedevolezza e conflittualità con l’uomo in un continuum di superfici e informazioni. L’oggetto è informazionale, colto in una rete post-informazionale, più complessa da quella prefigurata da Max Bense. Gli oggetti di Fontana rappresentano un salto importante per prospettiva informazionale, continuum di superfici e malleabilità. In questa dimensione cerco di lavorare al conferimento di un dato informazionale ad un susseguirsi di versi e forme conflittuali, le quali possono, a questo punto, sfociare in un linguaggio distopico che recupera la materialità di partenza del corpo umano come corpo della lingua. I versi raccontano di una “quantificazione”, come nota bene Caggiula in introduzione, la quale guarda ai media.
Uno dei versi, credo emblematico della poetica di Entropia del fuoco, recita «Qui i rapporti umani si fanno poveri come la terra». Cosa intende dire?
La povertà della terra è un correlativo dei rapporti umani i quali sembrano invischiati in una dimensione amicale, opportunista. Si tratta di una terra che in virtù di questi aspetti spesso evita il confronto con l’esterno, ripiegandosi su se stessa. Al contrario, guardo all’opera di autori come Francesco S. Dòdaro, poeta e teorico letterario, che dagli anni ’70 porta avanti un discorso corale sempre attento da un lato al territorio e dall’altro alle istanze delle linee di ricerca internazionali, producendosi in uno sforzo creativo e, a mio avviso, politico, di rigorosa ricerca e onestà intellettuale, spaziando fra due apici che mi sembra di poter identificare come compresi fra la parola mass-mediale e il reincantamento del mondo. Oggi, tale percorso è colpevolmente ignorato sul territorio. L’assenza di un contesto critico va ad infoltire le fila dell’ambiguità nei rapporti, e lo spazio di un tutto indifferenziato, facendo calare il silenzio su operazioni culturali e letterarie, come le esperienze di Dòdaro, Franco Gelli, Giovanni Valentini ecc, di primissimo piano.
Un altro elemento che emerge, come dal titolo della raccolta, è il fuoco, inteso come purificazione di una cultura arcisunta, non più in grado di portarsi in avanti, o cosa?
In un contesto in cui la virtualizzazione ha consentito il prodursi di nuove prospettive nello sguardo sul mondo, la condizione del fuoco, della luce, del bianco feroce, nell’immagine della quantità di informazione (entropia) rappresentata dal fuoco e dalla sua pluralità, dal suo divenire, vogliono rappresentare un aspetto attraverso cui esperire il Mediterraneo alla luce, anche, dei media e del taglio che esercitano sulla parola in un contesto delicatamente stravolto. Dunque il fuoco come metafora di ricerca e assunzione di responsabilità, estrema, ma sempre il fuoco, con la sua mutevolezza, rivela all’interno del discorso poetico diverse sfaccettature.
In questi versi si nota anche un amore per la terra, per la propria terra martoriata dal capitalismo. Che rapporto ha con la sua terra, con l’ambiente in cui vive?
Il rapporto emerge da un lato dall’assunzione di un orizzonte critico nei confronti del territorio, dall’altro dalla rilevazione di una serie di rapporti, al contempo umani e con il luogo, che riconvertono le asprezze in dolcezze. Gli affetti, i propri rapporti interpersonali, l’orizzonte dell’alterità, conferiscono senso e forza alla ricerca avviata attorno alla dimensione del Mediterraneo.