Non è un caso che l’ultima fatica letteraria di Eduardo De Filippo sia stata la traduzione in napoletano della commedia che rappresenta l’ultima fase artistica di William Shakespeare: La tempesta.
Come Shakespeare aveva lasciato nella fase precedente la visione desolata delle sue tragedie più pessimistiche (basti citare Amleto, Otello, Machbet e Re Lear) così De Filippo aveva consegnato al pubblico dieci anni prima il suo desolato testamento umano ne Gli esami non finiscono mai (1973), con la visione della vita come grande mascherata che neppure la morte riesce a rendere meno grottesca (e si ricordi questa battuta della Tempesta: “Il grande globo si dissolverà come questa cerimonia inconsistente”).
Alla fine della sua vita, indubbiamente il drammaturgo del Novecento avrà sentito il bisogno di costruire qualcosa di positivo, di dare una speranza, di mantenere in qualche modo la promessa implicita nell’adagio famoso “Ha dda passà ’a nuttata”. Il che è coerente con quello che fece Eduardo negli ultimi anni soprattutto per i ragazzi di Nisida.
Ora, La tempesta è stata giudicata un’opera di apertura alla vita, un sipario di possibilità positive che si apriva dopo le cupe tragedie del passato.
Ricordiamo brevemente, anche se forse è a tutti nota, la trama dell’opera. Personaggio principale è Prospero, duca di Milano spodestato a tradimento dal fratello Antonio in combutta col re di Napoli Alonso.
Prospero è confinato, con la bellissima figlia Miranda, su un’isola deserta del Mediterraneo. Egli, grazie alle arti magiche che ha sempre coltivato, esercita il suo potere sugli spiriti dell’isola, fra i quali c’è Ariele, spirito dell’aria. Altro personaggio è Calibano, uomo mostruoso sia nel corpo che nell’anima, che rappresenta l’umanità allo stato brado, che Prospero deve tenere a bada perché ha tentato di insidiare Miranda.
Il dramma inizia con una tempesta, scatenata da Prospero con la sua magia, a causa della quale una nave naufraga nelle vicinanze dell’isola. Fra gli uomini che si salvano approdando sull’isola vi sono i nemici di Prospero, Antonio e Alonso, e con loro vi è Ferdinando, figlio del re di Napoli.
I naufraghi si disperdono, sicché Alonso non sa che il figlio si è salvato e viceversa. Da un incontro casuale nasce l’amore tra Ferdinando e Miranda, voluto e benedetto da Prospero.
Il quale Prospero fa in modo che tutti si ritrovino con lui presso la sua grotta, dove perdona il fratello, che gli restituirà il ducato di Milano, e il re Alonso, che sarà felice di benedire il matrimonio del ritrovato figlio Ferdinando con Miranda.
Una storia, dunque, che rivela uno Shakespeare più aperto alla speranza. Restano certo le qualità negative nell’uomo, e in particolare la brama del potere, ma si affermano alla fine valori come l’amore, la tolleranza, il perdono. Ed è con questa intenzione che Eduardo si accosta alla Tempesta. Lo dice lui stesso quando spiega i motivi della scelta di quel testo per la traduzione che gli era stata chiesta da Giulio Einaudi nell’ambito del progetto editoriale “Scrittori tradotti da scrittori”:
“Ci sono tante […] ragioni che mi hanno fatto preferire La tempesta ad altre splendide commedie scespiriane […], e una delle più importanti è la tolleranza, la benevolenza che pervade tutta la storia”.
Eduardo volle accostarsi al testo traducendolo non nel suo consueto linguaggio napoletano moderno parzialmente italianizzato, ma in un napoletano arcaico del Seicento, reso però comprensibile attraverso tecniche di riavvicinamento alla comprensione attuale. Egli stesso afferma: “Quanto al linguaggio, come ispirazione ho usato il napoletano seicentesco, ma come può scriverlo un uomo che vive oggi; sarebbe stato inattuale cercare una aderenza completa ad una lingua non usata ormai da secoli”.
A noi che leggiamo “a posteriori”, è possibile rintracciare abbastanza chiaramente almeno alcuni dei motivi che potevano legare i due drammaturghi.
Innanzitutto i richiami alla Commedia dell’arte italiana, alla quale sicuramente si ispirò Shakespere e nella quale affonda le radici il nostro teatro fino allo stesso Eduardo.
Così, personaggi minori quali gli ubriaconi Stefano e Trìnculo (servi del re Alonso e di Antonio, il fratello di Prospero) sono stati riconosciuti come riproposte di maschere e personaggi napoletani, e per il secondo è stato fatto (a torto o a ragione) anche il nome di Arlecchino.
La stessa scena si svolge in un’isola del Mediterraneo (anche se non è dato, né forse utile, sapere qual è), che a noi fa pensare vagamente all’isola come sede di carcere, presente nella tradizione letteraria napoletana (pensiamo, exempli gratia, a Scurdato nterr’a ll’isola di Viviani) e nel nostro immaginario: Procida o, perché no, Nisida.
Anche la magia è un tema non estraneo al teatro di Eduardo (Sik-Sik l’artefice magico, La grande magia), anche se essa appare come compagna e controfigura di una realtà sociale e umana desolante.
E il padre che ha un’unica figlia, della quale s’innamora un principe, sottoposto dal padre stesso a prove fino a che l’amore trionfa, favola topica presente nel nostro teatro di tutti i tempi, non manca (pur se in modo problematico e doloroso) nei testi di Eduardo (pensiamo a Non ti pago, ma il tema è presente anche altrove).
Potremmo continuare, ma ci piace segnalare qualche punto in cui il “traduttore” si allontana dal testo originale per seguire se stesso: Ariele, lo spirito dell’aria che serve Prospero anche perché ha in cambio la promessa di una futura liberazione, nella trasposizione di Eduardo assume talvolta (come afferma Eduardo stesso nella Nota del traduttore) comportamenti furbeschi simili a quelli di uno scugnizzo napoletano.
Anche la figura di Calibano è reinterpretata in chiave personalissima dal De Filippo, all’interno di una registrazione solo sonora dell’opera, che peraltro non è stata mai messa in scena da attori (dopo la morte di Eduardo, c’è stata però una rappresentazione fatta dai Fratelli Colla, maestri del teatro marionettistico, utilizzando la suggestiva sonorità della voce di Eduardo in quella registrazione), in cui una voce cavernosa canta la canzone misteriosa e primitiva di questo quasi uomo.
Un accenno, infine, a una frase rimasta famosa della Tempesta è qui d’obbligo, perché la frase stessa è aderente alla visione del mondo di entrambi i drammaturghi ed è la frase che lega in fondo il Seicento al Novecento:
“Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita” (Prospero, atto IV, scena I), così tradotta da Eduardo:
“Nuje simmo fatte cu la stoffa de li suonne, e chesta vita piccerella nosta de suonno è circondata, suonno eterno”.