La questione riguardante l’assetto strutturale della dimensione dell’industria italiana riporta a delle caratteristiche che si contraddistinguono rispetto a quelle di paesi con normative fiscali e dimensioni di mercato analoghe. Si può affermare infatti che l’industria italiana è dominata da un panorama che vede la dimensione media delle imprese per addetti attorno al 3,9% nel periodo dal 2001 al 2016, una percentuale sensibilmente inferiore rispetto all’8,6%, 7% e 6,3% rispettivamente di Germania, Francia e Regno Unito (dati Eurostat).
Volendo approfondire in termini puramente economici questa caratteristica che contraddistingue sensibilmente l’Italia dagli altri paesi, è opportuno evidenziare come le grandi imprese, ovvero quelle imprese che hanno almeno 250 dipendenti o più, nel nostro paese rappresentino secondo l’Istat soltanto lo 0,1% del numero di imprese totali presenti sul territorio, e quindi le piccole e medie imprese rappresentano la restante quota del 99,9 per cento. Volendo fare un paragone con la media europea (escludendo da tale media il paese Italia), la differenza che spicca di più è il fatto che in Italia ci sono il 4% di micro imprese in più rispetto alla media europea. Le micro-imprese, puntualizziamo, sono quelle imprese che hanno un numero di addetti inferiore a 10 e che realizzano un fatturato annuo dai 2 milioni di euro in giù.
Economia: la forte presenza delle piccole imprese
Ci sono settori che per loro natura sono caratterizzati da una elevata quantità di piccole imprese, come quello della ristorazione, e settori che invece vedono la presenza esclusiva di grandi imprese, come il settore automobilistico che è considerabile come oligopolistico. Perché ci sono poche e grandi imprese in alcuni settori e non in altri? Cosa è che determina la dimensione delle imprese rispetto al mercato di riferimento? In primo luogo, per rispondere a queste domande, bisogna tenere conto del fatto che la grandezza di una impresa è sempre relativa al suo mercato di riferimento. Una impresa, ad esempio di grandi dimensioni per il mercato italiano, potrebbe essere considerata di dimensioni medio-piccole per il mercato statunitense. A determinare la dimensione di una impresa rispetto al mercato sono i fattori dei confini orizzontali dell’impresa. Sono sostanzialmente rappresentati dalla quantità e la varietà dei beni che l’impresa produce. Il riferimento è quindi alle economie di scala, economie di scopo (o di varietà) e alle curve di apprendimento.
Le economie di scala, di apprendimento e di scopo
Le economie di scala sono presenti quando il costo marginale (ovvero l’incremento del costo totale all’aumentare di una unità prodotta) è inferiore alla curva di costo medio. In altre parole, quando il costo medio decresce al crescere della produzione. Avendo, teoricamente, la curva di costo medio un andamento a “U”, questo significa che le aziende che risentono di più dei costi sono quelle molto piccole o molto grandi. All’aumentare della quantità prodotta, infatti, il costo medio diminuisce perché i costi sono ripartiti nelle grandi quantità prodotte. Ma se la produzione continua ad aumentare ancora, si ottiene che i costi medi, superato un certo livello di produzione, cominciano nuovamente a salire. Da qui il tipico andamento a “U” della curva di costo medio, che è decrescente all’inizio e, superato un certo livello di produzione, crescente. A questo punto verrà spontaneo chiedersi quale sia il punto economicamente efficiente per l’impresa. A tal proposito è importante puntualizzare come nella realtà non esista soltanto un punto economicamente efficiente ma più punti efficienti. E’ proprio per questo che possono coesistere che vendono di più e di meno. La scala minima efficiente può essere raggiunta, in alcuni casi, producendo una quantità minima rispetto alla totalità del mercato. La curva a “U” è solo una curva teorica, quasi sempre essere più grandi è più vantaggioso che essere piccoli. Uno dei motivi per cui è osservabile l’andamento a “U” dei costi medi è il fatto che al crescere delle dimensioni dell’impresa vengono applicate una serie di normative previste. Alcune delle quali, nell’ambito del nostro ordinamento giuridico, sono l’obbligo di assunzione di persone con handicap e creazione di spazi per le assemblee sindacali.
Le economie di scopo sono invece quelle che permettono di risparmiare sul costo medio. Il classico esempio è quello di due imprese. L’impresa 1 produce due tipi di beni, il bene A e il bene B. L’impresa 2 invece produce solo il bene A. Se il costo per produrre il bene A è inferiore per l’impresa 1 allora si è in presenza di economie di scopo. L’impresa 1 avrà quindi costi medi minori per produrre il bene A rispetto all’impresa 2.
Le economie di apprendimento, ovvero la curva di apprendimento, comportano risparmi dei costi derivanti dall’esperienza e conoscenza accumulate dagli addetti dell’impresa. In altri termini si realizzano quando l’esperienza dei lavoratori aumenta nel tempo, e imparano a svolgere sempre meglio e in modo più efficiente un determinato lavoro. Sono quindi legate al fattore umano. Queste comportano quindi una diminuzione della curva dei costi.
Il licenziamento e il rapporto con l’economia di scala
In presenza di economie di scala, il licenziamento dei dipendenti può rivelarsi la scelta giusta al fine di riequilibrare i fattori di produzione. Ma in presenza di economie di apprendimento licenziare può rivelarsi un errore, in quanto con il licenziamento andranno persi i vantaggi sui costi derivanti dall’esperienza accumulata dal fattore umano.