La percentuale di materia oscura potrebbe essere oggi inferiore del 5 percento rispetto a quella che era presente nell’universo primordiale. È quanto emerge da uno studio recente, pubblicato su Physical Review D, che tenta di spiegare la discrepanza di alcuni parametri cosmologici nell’ambito di un modello che si basa sull’ipotesi del decadimento della materia oscura
Secondo gli autori del presente studio, la discrepanza osservata tra i parametri cosmologici dell’universo di oggi e di quello primordiale potrebbe essere spiegata assumendo che la percentuale di materia oscura sia diminuita. Crediti: MIPT Press Office
In un articolo apparso su Physical Review D, un gruppo di scienziati del MIPT, dell’Institute for Nuclear Research (INR) della Russian Academy of Sciences e della Novosibirsk State University (NSU) presenta i risultati di una serie di calcoli che hanno permesso di stimare quanta materia oscura sia andata perduta, concludendo che la corrispondente parte associata alla cosiddetta componente instabile non doveva essere più del 2-5 percento. In altre parole, secondo gli autori la discrepanza osservata tra alcuni parametri cosmologi dell’universo odierno e di quello primordiale potrebbe essere spiegata assumendo che la percentuale di materia oscura sia diminuita nel corso del tempo.
È ormai noto che la materia oscura non si manifesta direttamente in alcun modo, tranne per gli effetti gravitazionali che essa esercita sulla materia ordinaria. Grazie ai preziosi dati forniti dalla missione del satellite Planck, oggi sappiamo che la percentuale di materia oscura presente nell’universo ammonta al 26,8 per cento e il resto è composto da materia ordinaria (4,9 per cento) e dall’enigmatica energia oscura (68,3 per cento). Se da un lato non sappiamo ancora nulla sulla natura della materia oscura, dall’altro le sue proprietà potrebbero aiutare gli scienziati a risolvere un problema emerso dalle osservazioni di Planck. Il satellite ha, infatti, misurato in maniera molto accurata le piccolissime fluttuazioni della temperatura nella radiazione cosmica di fondo attraverso cui gli astronomi sono in grado di stimare alcuni parametri cosmologici fondamentali che risalgono all’epoca in cui l’Universo aveva un’età di appena 380 mila anni dopo il Big Bang (la cosiddetta era della ricombinazione).
«Abbiamo trovato che alcuni parametri cosmologici, come quello che descrive il tasso di espansione dell’universo e quello associato al numero delle galassie negli ammassi, variano in maniera significativa in rapporto ai dati ottenuti misurando direttamente la velocità di espansione delle galassie o studiando gli ammassi dell’universo di oggi», dice Igor Tkachev dell’INR. «Questa differenza è risultata significativamente superiore rispetto ai margini d’errore e agli errori sistematici di cui siamo a conoscenza. Perciò pensiamo che o stiamo avendo a che fare con un qualche tipo di errore sconosciuto o che la composizione dell’universo primordiale sia stata considerevolmente diversa rispetto a quella attuale».
Questa discrepanza potrebbe essere spiegata nell’ambito di un modello, detto DDM (dalle iniziali di decayinbg dark matter model), che si basa sull’ipotesi del decadimento della materia oscura: supponendo, cioè, che nell’universo primordiale ci fosse molta più materia oscura e che poi parte di essa si sia consumata (mediante un processo di decadimento) nel corso del tempo.
La figura illustra la percentuale della componente instabile della materia oscura (F) in funzione del tasso di espansione delle strutture non legate gravitazionalmente, proporzionale all’età dell’universo, quando vengono esaminate varie combinazioni dei dati di Planck per diversi fenomeni cosmologici.
«Immaginiamo che la materia oscura consista di diverse componenti, come nel caso della materia ordinaria (protoni, neutroni, elettroni, neutrini, fotoni)», spiega Dmitry Gorbunov del MIPT e INR e autore principale dello studio. «Assumiamo che una componente consista di particelle instabili che hanno, come dicono i fisici, un tempo di vita media molto lungo. Ora, all’epoca della formazione dell’idrogeno, ossia centinaia di migliaia di anni dopo il Big Bang, esse sono ancora presenti nell’universo ma oggi, miliardi di anni dopo, sono scomparse, essendosi trasformate (per decadimento) in neutrini o in altre ipotetiche particelle relativistiche. In questo caso, la quantità di materia oscura presente all’epoca della formazione dell’idrogeno sarà necessariamente differente rispetto a quella presente oggi».
Per arrivare a queste conclusioni, gli autori hanno analizzato i dati di Planck confrontandoli con il modello DDM e il modello standard cosmologico ΛCDM (Lambda-Cold Dark Matter) con materia oscura stabile. Il confronto ha mostrato che il modello DDM sembra essere più consistente con i dati osservativi. Ad ogni modo, i ricercatori hanno poi trovato che l’effetto del lensing gravitazionale, cioè la distorsione che subisce la radiazione cosmica di fondo dovuta al campo gravitazionale, vincola enormemente nell’ambito del modello DDM la percentuale di materia oscura che si è trasformata. Mettendo, quindi, insieme i dati ottenuti da osservazioni di vari effetti cosmologici, gli autori sono stati in grado di fornire una stima della percentuale relativa alle componenti della materia oscura che si sono trasformate a seguito del processo di decadimento e che sono dell’ordine del 2-5 per cento.
«Ciò vuol dire che nell’universo, oggi, la quantità di materia oscura risulta inferiore del 5 per cento rispetto a quella presente all’epoca della ricombinazione», conclude Tkachev. «Tuttavia, non siamo in grado di affermare quanto rapidamente sia avvenuto questo processo di trasformazione. Può anche darsi che ancora oggi la materia oscura sta continuamente disintegrandosi, il che richiederebbe l’utilizzo di un modello ancora diverso e sostanzialmente più complesso».