Con questo articolo iniziamo un excursus sulle donne assassine più feroci della storia che si sono macchiate di delitti atroci, lontane dal luogo comune del gentil sesso. Non sembra, ma le donne assassine rappresentano il 15% della totalità degli omicidi che avvengono nel mondo. Ma perché le donne, che appartengono al “gentil sesso” e sono portatrici di vita, arrivano ad uccidere? Cinzia Tani, scrittrice e giornalista, in un articolo dal titolo Delitto al femminile, tenta di spiegarne i motivi.
«L’assassinio e altri atti violenti contro le persone fisiche sembrano in completa antitesi con il delicato, riservato, protettivo ruolo del sesso femminile. Inoltre gran parte degli studiosi e dei ricercatori e criminologi erano uomini. ed è sempre stato difficile per loro ammettere l’esistenza del crimine femminile. L’uomo nasce dalla donna e l’idea che la donna possa essere il nemico fa paura. L’omicidio femminile veniva considerato un’aberrazione. Per molti si trattava di atti involontari. Le donne venivano viste come esseri vulnerabili, incapaci di malvagità. La violenza era un universo esclusivamente maschile: le donne e i bambini ne erano le vittime. Tradizionalmente le donne non sono educate all’aggressività bensì alla passività. Tutti i condizionamenti sociali fanno sì che le donne passino raramente all’atto delittuoso. Per molto tempo si è ritenuto che la donna fosse incapace di uccidere. Si teorizzava una sorta di differenza biologica tra i due sessi. Il corpo femminile, predisposto per accogliere e dare la vita, non poteva essere in grado di toglierla».
Una concausa è data dai cambiamenti sociali in cui la donna è costretta a vivere, quasi sempre in negativo, che ne hanno modificato la personalità. Insomma: leggendo l’articolo della Tani, pare che le donne siano molto vendicative. A riprova ci sostiene un saggio del 1983 del criminologo Cesare Lombroso, La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, tracciando «le qualità peggiori della psicologia femminile: l’inclinazione alla vendetta, l’astuzia, la crudeltà, la passione per il vestiario, la menzogna, il rancore, l’inganno, formando così frequentemente dei tipi di una malvagità che sembra toccare l’estremo». Inoltre, la Tani traccia una serie di motivazioni «fra le cause scatenanti: epilessia, disordini mestruali, gravidanza, parto, lattazione, febbri, ferite alla testa o alla spina, superlavoro. […] La sindrome premestruale che comporta depressione, irritazione e ostilità nella donna contribuisce secondo gli ultimi studi a rendere la donna più aggressiva. Lombroso dava credito a questa teoria. Nel 1945 uno studio rilevò che l’84% dei crimini violenti commessi dalle donne sono commessi durante il periodo premestruale e mestruale. (Vito e Holmes). Ma le ricerche contemporanee non trovano alcun supporto a tale teoria».
Dunque, qual è il fattore scatenante che induce le donne ad uccidere? Come abbiamo visto può essere vario e variegato: principalmente si uccide per una questione economica, ma anche per odio, amore, vendetta, rivalità, delusione, psicopatie. Oggi uccidono con qualsiasi arma a disposizione, bianca o di fuoco che sia. Ma un tempo usavano il veleno per commettere i loro delitti, come nel caso di Giulia Tofana (Toffana o Tophana), una romana di Trastevere: era una assassina seriale, fattucchiera e megera, cortigiana della corte di Filippo IV di Spagna. Le sue origini e la data di nascita non sono certe, ma probabilmente era figlia di Thofania d’Adamo, che fu giustiziata a Palermo il 12 luglio 1633, accusata di aver ucciso suo marito Francesco. Si dice che proprio dalla madre apprese l’arte nella preparazione dei veleni che, dopo la morte di questa, pensò di vendere i suoi “prodotti micidiali” a Napoli e a Roma.
Era una specie di “collaboratrice” per quelle donne che volevano farla finita con i propri mariti, intrappolate in difficili matrimoni. Non partecipava personalmente alla liberazione delle donne dagli uomini violenti e brutali. Conoscendo la ricetta della “manna di San Nicola”, detta anche “acqua Toffana”, un veleno potentissimo, procurava alle potenziali assassine, con l’aiuto di complici bene addestrate, la micidiale pozione che in poco tempo uccise centinaia di uomini tra il 1633 e il 1651, un eccidio definito “il sordo macello dei mariti”.
Il veleno, come riportato nelle cronache di quel tempo, era inodore, insapore e trasparente come l’acqua. Si preparava mettendo a bollire in una pignatta nuova una mistura composta da: due once di arsenico macinato, un pugno di piombo e una “foglietta” (mezzo litro) d’acqua. La pozione così ottenuta, mescolata al vino o alla minestra, provocava vomito, poi febbri altissime, quindi conduceva a morte nel giro di quindici-venti giorni. L’avvelenatrice di Trastevere, a questa “arte”, che “spacciava per carità”, liberando mogli sfortunate dalla tirannia dei mariti, visto che all’epoca non vi erano ancora i divorzi, addestrò anche la figlia, Girolama Spera, “l’astroliga della Longara”, che nel giro di poco tempo superò la “maestra” «in perizia e riservatezza. Il segreto, però, non durò a lungo. Il 5 luglio del 1659, la Toffana, sua figlia e le loro complici furono impiccate [a campo de’ Fiori]. Venne poi approvata una legge che richiedeva la registrazione per l’uso e la vendita dei veleni» (C. Tani).