«Io non sono un sognatore ideale e politico: io sono un educatore di ragazzi vivi»
“Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far parti uguali tra disuguali”
(Lettera a una professoressa)
Don Lorenzo Milani, nato a Firenze nel 1923 e ivi morto nel 1967, con la Scuola di Barbiana ha alzato il grido più potente nell’Italia degli anni ’60 contro la “scuola di classe”.
La sua “Lettera a una professoressa” scritta con scrittura collettiva smuove le acque stagnanti di una scuola e di una società che navigano in una visione retrograda dell’educazione, dei suoi metodi e dei suoi scopi. Con essa le “Esperienze pastorali” e“L’obbedienza non è più una virtù”, lettera ai cappellani militari che avevano attaccato impietosamente l’obiezione di coscienza tacciandola come una forma di vigliaccheria, formano una trilogia di interventi che pone il prete di Barbiana all’attenzione di tutti. Ognuno di questi scritti ci racconta chi era e cosa voleva questo prete-insegnante che senza uscire dalle strutture che criticava, Scuola e Chiesa, afferma prepotentemente il suo impegno di uomo, di maestro e di credente, teso a lottare perché gli esclusi sociali, i poveri, abbiano accesso allo strumento primo dell’identità umana, che è per lui la lingua e al suo uso ai fini comunicativi e espressivi. Questo suo impegno fu frainteso e contestato allora come ora. Recentemente il giornale della Confindustria, Il Sole 24 ore, in un articolo del 26 febbraio 2017 intitolato: Io sto con la professoressa ha messo in discussione la pedagogia di Don Milani e la sua visione della scuola e della società. Ma queste contestazioni non offuscano la figura di Don Milani come punto di riferimento importante per quanti sognavano e sognano una società e una scuola autenticamente democratiche.
Nel dicembre del 1954, a causa di screzi con la Curia di Firenze, viene inviato a Barbiana, una piccolissima e sperduta frazione di montagna nel comune di Vicchio, nel Mugello, e qui, dove avrebbe potuto sentire solo il peso di un esilio pastorale, realizza invece la sua opera più grande, il primo tentativo di scuola a tempo pieno, espressamente rivolto alle classi popolari, dove, tra le altre cose, sperimenta quel metodo di scrittura collettiva che porterà a formulare la famosa Lettera.
Don Milani era per quanto riguardava la dottrina un prete ortodosso eppure fu confinato in montagna come un eretico. Una delle ragioni risiede certamente nella sua idea di progresso legata alla scuola e alla lingua. I suoi metodi pastorali furono considerati dalla chiesa di allora preoccupanti, “Esperienze pastorali” fu ritirato dal commercio e giudicato come un libro pericoloso, per le idee progressiste tese a riscattare i poveri e dar loro attraverso l’acquisizione della lingua un posto e un ruolo nella società. Ma la chiesa alla quale appartiene don Milani è la chiesa di Pio XII, che può accettare il concetto di “povero” cui porgere il sostegno di una mano pietosa senza però alterare lo “status quo”, ma non quello di “sfruttato” in una iniqua distribuzione della ricchezza e del potere. All’interno della Chiesa ogni reale sovvertimento che poteva comportare conseguenze radicali nell’ ordine costituito, come quello di dare la lingua ai poveri, era visto da sempre con naturale diffidenza.
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Alle accuse di comunismo Don Milani risponderà sempre che le radici del suo pensiero e delle sue azioni stanno tutte nel Vangelo
Don Milani si riuniva a Barbiana coi suoi ragazzi in due stanze accomodate alla meglio nella canonica durante l’inverno e con la bella stagione sotto il pergolato all’aperto adiacente, ragazzi che andava raccogliendo in giro per i molti casolari sparsi intorno al paesello. Si lavorava tutti insieme, chi aveva imparato una cosa la insegnava agli altri in un’attività collettiva che non aveva vacanze. Questa esperienza di scuola di base, raccontata in “Lettera a una professoressa”,
pubblicata nel maggio del 1967 dopo la sua morte, diventa per il movimento studentesco del ’68 una vera e propria bandiera, così come per i giovani insegnanti che sperimentavano i limiti di una scuola che era strutturata non per “ i Pierini” (gli emarginati, i poveri) , ma sull’esigenza dei “Gianni”, quei primi della classe figli della borghesia che già la società agevolava ampiamente e che la scuola continuava a favorire mentre escludeva “gli ultimi”.
In un cartello all’ingresso della scuola di Barbiana si poteva leggere il motto inglese “I care”, assunto programmaticamente contro il “me ne frego” fascista, che significa “mi importa, mi interessa, mi sta a cuore”, una frase per dare risalto all’amore con cui ogni pratica educativa va portata avanti, frase che fu in seguito ripresa da molte altre organizzazioni con fini pedagogici e umanitari.
Don Milani contesta il rapporto docente-discente della scuola classista, il principio di autorità basato sulla posizione e non sull’autorevolezza del docente, soggetto a leggi incontestabili di potere, dove il docente è più un giudice che una guida nella strada dell’apprendimento e della conoscenza. Don Milani crede che si educhi nell’amore, nella comprensione dell’altro, nell’amicizia, nella condivisione. Crede che bisogna educare ad esercitare il pensiero e lo spirito critico, unica condizione per crescere come uomini e cittadini e non come marionette e sudditi.
Con il suo libro “L’obbedienza non è più una virtù”, scardina per sempre un altro concetto fino ad allora alla base della Scuola, della Chiesa, di ogni istituzione totalizzante che operi nella società. Questa Lettera anch’essa collettiva, si dirige ai cappellani militari della Toscana che avevano affermato di considerare “un insulto alla patria e ai suoi caduti la cosiddetta obiezione di coscienza che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà”. Viene pubblicata dal settimanale Rinascita il 6 marzo del 1965 ed è uno straordinario, dettagliato excursus nella nostra storia patria e insieme un’appassionata motivata difesa dell’obiezione di coscienza. Un gruppo di ex combattenti lo denuncia, viene processato per apologia di reato ma viene assolto in primo grado nel febbraio del 1966. Muore prima della sentenza di appello del 1967.
Molte voci, di scrittori come Pasolini, di maestri come Rodari, di intellettuali come Lombardo Radice, si sono levate in difesa della sua vita e del suo pensiero riconoscendovi una dignità umana, una coerenza e una dedizione alla sua pratica pastorale e educativa di altissimo livello. Certe definizioni attribuite allora alla sua persona, come quella di “cattocomunista”, erano figlie solo di una ristretta visione ideologica che non sapeva comprendere in sé la complessa personalità di queste prete scomodo, di questo educatore coraggioso che nel corso della sua vita piuttosto breve seppe gettare un seme fecondo nell’ambito della discussione sulla scuola e sulla società in quegli anni di grandi cambi.
L’esperienza di Don Milani va letta come un significativo tentativo di superare distinti schieramenti culturali e politici che in quegli anni dividevano l’Italia e l’Europa attraverso una viva dialettica razionale, una conoscenza storica approfondita, lo studio e l’uso del linguaggio quali elementi di chiarificazione e di diffusione di pensieri e teorie, con l’unico scopo di favorire un’educazione delle masse popolari che le portasse a fruire dei benefici culturali, primo fra tutti la lingua, come unica garanzia per la creazione di una società equilibrata e giusta.
Che oggi qualcuno possa attribuire a Don Milani e ai suoi metodi l’inizio di un processo educativo che, eliminando la selezione si sia fatto responsabile di un degrado e di strutturali carenze nella nostra scuola devastata da interventi e riforme inopportune, completamente scollate da qualsiasi visione o progetto di società, significa non aver capito il senso profondo della sua azione educativa. Don Milani era un facilitatore per ciò che riguardava la rimozione degli impedimenti che impedivano agli “ultimi” di accedere all’educazione, ma solo come prima fase di acquisizione dell’uso della lingua, che era per lui l’indispensabile passo verso l’uguaglianza e il progresso. Successivamente le conoscenze erano riproposte e condivise in un processo di acculturazione costante e rigorosa che non includeva “promozioni” facili o programmi di secondo livello, come a qualcuno oggi fa comodo credere per potergli imputare una presunta responsabilità nei problemi della scuola odierna.
Il grande merito di Don Milani è, non solo di aver pensato ad una scuola diversa e di averla realizzata, ma anche quello di aver fatto diventare il “problema scuola” un problema di massa da discutere nella società e non solo nei corridoi del Ministero della Pubblica Istruzione, nei Palazzi del potere, nel chiuso delle aule scolastiche.
Ciò che ci resta di lui è la forza radicale con cui sentì e portò avanti la sua attività di educatore come un dovere civico e morale. Ciò che ci resta di lui è l’impegno di tanti docenti a cercare soluzioni quotidiane nella pratica educativa, specie per coloro che la società emargina e che sono la forza umana di un popolo, le cui potenzialità disperse sarebbero una perdita incalcolabile per lo sviluppo umano, sociale e culturale di tutti, un impoverimento delle risorse del nostro paese. La sua è una grande indicazione pedagogica che deve essere uno stimolo, non per ripetere l’esperienza irripetibile di Barbiana, ma per creare cento, mille Barbiana che rispondano alle necessità della scuola e della società oggi, bisognose come ieri del contributo di tutti alla crescita comune, “perché il sogno dell’uguaglianza non resti un sogno.”
Nel 1997 la Rai ha mandato in onda in due puntate una miniserie dal titolo Don Milani – Il priore di Barbiana, diretta da Andrea e Antonio Frazzi, interpretata da Sergio Castellito, che ha riproposto a trent’anni dalla morte la figura e l’opera di don Milani.
In questi giorni la visita del papa Francesco alla tomba di Don Milani ne ha riconosciuto in pieno e senza ombre il valore della pratica pastorale e educativa.