Don Giuseppe Diana veniva ucciso oggi trent’anni fa. La camorra di Casal di Principe non poteva perdonargli la sua opposizione così aperta. Doveva fermare la sua opera di educazione della popolazione che le sottraeva manovalanza. A quei tempi, la strategia per eliminare un nemico era semplice quanto immediata: pochi colpi di pistola e l’omertà della gente. Al prete anticamorra, come viene spesso definito, fu riservato lo stesso trattamento ma la sua morte cambiò le sorti del piccolo comune del casertano.
Chi era don Giuseppe Diana
Giuseppe Diana nasce a Casal di Principe il 4 luglio 1958. A dieci anni, i genitori, per allontanarlo da un ambiente che sapevano malsano, lo mandano in seminario dove frequenta scuola media e il liceo classico. Frequenta la Pontificia facoltà teologica dell’Italia meridionale, presso il seminario di Posillipo, si laurea in Teologia e in seguito in Filosofia, entra nell’Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani (AGESCI) e nel 1982 è ordinato sacerdote. Da allora associa l’insegnamento a incarichi presso il vescovado di Aversa e nel 1989 diviene parroco della parrocchia di San Nicola di Bari a Casal di Principe. Immerso in quel tessuto sociale dal quale i genitori lo avevano allontanato, matura una visione della chiesa come portatrice di impegno sociale.
La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di
burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche
occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un
preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela
dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci
devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per
permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di
promozione umana e di servizio.
Per amore del mio popolo
La sua posizione di sacerdote, a contatto con le persone, gli consente una minuziosa analisi della condizione di Casal di Principe. Un paese strozzato dal clan dei Casalesi, un gruppo di famiglie guidato da Francesco Schiavone, detto Sandokan, che non solo si dedica ad affari illeciti ma si è anche infiltrata negli enti locali.
Don Peppe, come viene affettuosamente chiamato dai suoi parrocchiani, parla apertamente di camorra in molte delle interviste rilasciate. Il suo pensiero a riguardo, tuttavia, è condensato in uno scritto che egli stesso diffonde nel Natale del 1991 in tutte le chiese di Casal di Principe e della zona aversana e condiviso dai parroci della zona. Uno scritto dal titolo “Per amore del mio popolo” che possiamo considerare il suo testamento spirituale ma anche la sua condanna a morte. Con straordinaria lucidità e senza mezzi termini, don Diana prende il via dalla preoccupazione per i giovani che o sono vittime o manovalanza dalla camorra che non esita a definire “una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di
diventare componente endemica nella società campana“.
Le sue attività, elencate una per una dalle estorsioni alle tangenti e allo spaccio di stupefacenti, hanno piegato un intero paese togliendogli anche la minima possibilità di uno sviluppo sano. Il “disfacimento delle istituzioni civili” ha reso possibile, secondo don Diana, l’infiltrazione della camorra a tutti i livelli. In questo quadro, la Chiesa ha bisogno di attuare “coraggiosi piani pastorali“, i sacerdoti devono parlare chiaro di camorra durante le loro omelie e approfondire il discorso anche con l’aiuto di intellettuali.
L’omicidio di Don Peppe Diana
Il sacerdozio di Don Peppe Diana è stato un grande affronto alla camorra e, si sa, la camorra non perdona chi la sfida così apertamente. Il 19 marzo del 1994, don Peppe arriva in Parrocchia un po’ prima del solito. Deve celebrare la messa delle 7.30 e dopo da appuntamento al bar ad alcuni amici per un piccolo festeggiamento del suo onomastico. Il festeggiamento non avverrà mai e neanche quella messa sarà mai officiata. Mentre indossa i paramenti sacri, in sagrestia, un uomo armato di pistola gli spara cinque colpi, alcuni di questi al volto come da esecuzione camorristica.
Don Peppino morirà sul colpo ma dalla sua morte, a Casal di Principe, nascerà una nuova coscienza civile.
In copertina foto di Gerd Altmann da Pixabay