Grazie alla condivisione di queste temi, si è in grado di diffondere una cultura di valorizzazione e di fusione con il tessuto sociale. Valentina Dolciotti Direttrice Responsabile e co-founder della rivista Divercity , nonché autrice del libro “Diversità ed inclusione. Dieci dialoghi con Diversity Manager” (GueriniNext, 2017), ci racconta l’impegno e la passione verso queste tematiche di cui ha fatto una professione.
Come è nata l’idea di creare una rivista dedicata ai temi di Diversity ed Inclusion?
Da un’intuizione di mio marito Tiziano Colombi, ora Marketing Director del magazine DiverCity che, a seguito della pubblicazione del mio libro e visto l’interesse crescente per le tematiche d’inclusione – che già affrontavo quotidianamente come consulente d’azienda – mi ha proposto di fondare insieme una rivista. L’idea mi sembrò folle e bellissima. Teneva insieme il mio amore per la scrittura e la lettura, le tematiche d’inclusione e la relazione con le imprese.
Al tempo (l’inizio del 2018) non c’erano magazine che approfondissero e si inoltrassero attraverso tutte le diversità. Ma solo riviste ad hoc o settoriali, dedicate a una “categoria” specifica di persone (la comunità LGBT+, le disabilità, le donne, ecc.). Noi, invece, avevamo il desiderio di raccontarle tutte, dando spazio e voce anche alle più scomode, anche alle meno “in voga”. Quindi ci siamo “buttati” in questa avventura e pare stia andando bene: a gennaio DiverCity compirà tre anni.
Cosa si intende per Diversity in maniera più ampia ?
Ormai si preferisce porre l’accento sulla parola inclusione piuttosto che sulla parola diversità, perché è più importante spingere sul processo che accoglie e include – appunto – piuttosto che sull’analisi e l’etichettatura delle differenze che ci contraddistinguono. Ad ogni modo, per Diversity & Inclusion si intendono tutte quelle politiche e prassi (che possono essere sviluppate e implementate da aziende, pubbliche amministrazioni, ONG, associazioni e enti di ogni tipo) rivolte alla conoscenza, all’integrazione e alla valorizzazione delle diversità di cui ogni individuo è portatore. Partendo, forse per praticità, dalle diversità più visibili (come, ad esempio, sono – talvolta ma non sempre – l’età, le disabilità fisiche, la lingua parlata…) fino ad arrivare a quelle meno appariscenti, come possono essere – talvolta, ma non sempre – alcune disabilità psichiche, l’orientamento sessuale/affettivo, il carattere, ecc.
Perchè c’è ancora molta necessità di trattare queste tematiche in ambito sociale e culturale?
Perché in Italia abbiamo appena cominciato a farlo! La necessità, o meglio l’impellenza, nasce da un dato di fatto: siamo tutti e tutte diversi, portatori e portatrici di svariate diversità che si sommano e accavallano e moltiplicano fra loro. Accoglierle (in primo luogo le nostre!, poi quelle altrui) e lasciarle interagire è imperativo categorico in un mondo popolato da quasi otto miliardi di individui con bisogni, capacità, fatiche e desideri diversi ma imprescindibili, che migrano, comunicano e si relazionano continuamente. Non possiamo ignorare le diversità, livellarle, negarle né combatterle. Vanno lasciate interagire. E, laddove possibile, vanno accompagnate nel farlo.
Cosa potremmo fare per avvicinarsi ai temi di Diversity e Inclusione nel quotidiano?
Osservare meglio. Ascoltare di più. Metterci in discussione. Sollecitare l’opinione e il sentimento altrui e prenderli realmente in considerazione, poiché sicuramente hanno compiuto un sentiero differente dal nostro per arrivare ad essere formulati, espressi e condivisi. Aspettare prima di emettere un giudizio, anche nella nostra testa – non necessariamente a voce alta -.
Chiedere. Interessarci. Provare a comprendere chi non ci somiglia e, (citando l’intramontabile romanzo di Harper Lee, To kill a mockingbird – in italiano Il buio oltre la siepe) ricordare quanto diceva l’avvocato a sua figlia: “Non puoi davvero capire un’altra persona fino a quando non consideri le cose dal suo punto di vista, fino a quando non entri nella sua pelle e non ci cammini dentro.”
Quali sono gli ambiti di miglioramento (o le resistenze) che ancora si incontrano, nei diversi contesti, verso queste tematiche?
Non tutti/e sono attratti da ciò che è diverso da sé, molte persone ne hanno paura o provano disagio. Questo è comprensibile ma ci si può “lavorare”. In ambito aziendale, ad esempio, sono molte le azioni e i progetti messi in campo dalle imprese per supportare e favorire l’inclusione di tutti i dipendenti, anche perché studi e ricerche dimostrano che questa modalità di gestione delle Risorse Umane (denominata diversity management) è – anche – un buon driver per il business.
Sicuramente poi c’è tanto da fare a livello normativo nazionale. Importanti passi avanti sono stati fatti con la legge Cirinnà, con la legge Golfo-Mosca e, in questi giorni, con la legge Zan (che è appena passata alla Camera. Speriamo succeda lo stesso al Senato ed entri in vigore presto), ma la strada da percorrere è ancora molto, molto lunga. Includere tutte le diversità significa riconoscere diritti a persone e gruppi di persone che, ancora oggi, non ne beneficiano e questo – purtroppo – non a tutti fa piacere.
Oltre al mondo del lavoro (pubblico e privato) e a quello delle Istituzioni, bisognerebbe inoltre investire risorse e competenze anche nell’impianto educativo statale, mettendo a disposizione percorsi sull’inclusione per tutti i gradi d’istruzione, sia per gli alunni e le alunne, sia per gli/le insegnanti.
L’inclusione è una scelta, non un accessorio che si può decidere di indossare o meno, come una sciarpetta. Includere è fare politica, nel senso più alto del termine, ciascuno/a e ogni giorno.