I fatti di Caivano ci hanno scosso. La notizia di una giovane vita spezzata è sempre triste, eppure esistono regole per raccontarla. Abbiamo imparato a destreggiarci perfino nei casi in cui la morte avviene per mano di un familiare. Quando invece dobbiamo raccontare di una ragazza morta perché la famiglia non sopportava che fosse fidanzata a un transessuale iniziano le difficoltà. Pudore? Perbenismo? Non vogliamo dare giudizi. Vogliamo semplicemente registrare la necessità, per chi fa informazione, di raccontare la realtà per quella che è, anche quando può non piacere, anche quando può essere scomoda. Per farlo ha bisogno di usare le parole giuste e, se non ci sono, ha il dovere di cercarle. Abbiamo così pensato di entrare nel mondo LGBTQI+ per molti versi ancora frainteso, parlando di disforia di genere e lo abbiamo fatto grazie all’aiuto di Luca Chianura, psicologo, psicoterapeuta, responsabile di Psicologia Clinica presso il SAIFIP – Servizio di Adeguamento tra Identità Fisica ed Identità Psichica presso l’U.O.C. di Chirurgia Plastica dell’A.O. San Camillo Forlanini di Roma.
Cosa si intende per disforia di genere?
Disforia di genere è l’attuale termine scientifico per descrivere quelle condizioni in cui il sesso biologico di una persona non corrisponde alla propria percezione di sé come maschio o come femmina.
Qual è il focus in un percorso terapeutico con una persona che presenta disforia di genere?
Il primo passaggio è la senz'altro la diagnosi che autorizza un eventuale cammino di transizione. Per il resto bisogna dire che il sostegno psicologico non è obbligatorio né per la legge né per i servizi sanitari. Mentre la valutazione diagnostica è necessaria per andare in tribunale (e vedersi riconoscere il nuovo genere di appartenenza n.d.r.), il sostegno non può essere ritenuto obbligatorio. In alcuni casi, però, è consigliato. Ci sono forti differenze tra chi presenta un forte disagio e ha bisogno di un suo spazio e chi invece riesce, nonostante alcune difficoltà, a gestire la propria vita sociale e relazionale. Per chi lo affronta, il percorso verte prima di tutto sull'elaborazione del disagio con se stessi. Sull'accettazione di essere nati in un modo ma di sentirsi in un altro e sui risultati che porterà l'adeguamento. Per esempio bisogna sapere che la terapia ormonale dura tutta la vita, che si potranno affrontare eventuali interventi chirurgici ma che il cambiamento non sarà mai definitivo. Un uomo che diventa donna non avrà mai l'utero quindi non potrà mai partorire. Quindi l'accettazione dei limiti che questo percorso comporta. Gli altri step riguardano gli aspetti sociali e relazionali: il coming out in famiglia, con gli amici, al lavoro.
Nel percorso psicologico sono coinvolte anche le famiglie?
Sì, abbiamo tanti minori per i quali il coinvolgimento delle famiglie è obbligatorio. Con i maggiorenni la terapia familiare permette di aiutare gli altri componenti della famiglia nell'accettazione e nell'elaborazione della situazione.
Qual è la cosa più difficile da far capire alle persone che non vivono questo disagio?
Prima di tutto che non è una scelta, si nasce in questo modo e non lo si sceglie. Poi è difficile far comprendere tutto il disagio relativo al proprio corpo: la repulsione che spesso c'è verso i propri organi genitali prevede un grosso sforzo di immaginazione e di empatia. Noi diciamo sempre che bisogna raccontarsi perché raccontandosi diventa più facile per gli altri comprendere questo disagio.
Il termine disforia nel linguaggio medico ha sostituito il termine disturbo per cui la medicina non parla più di disturbo comportamentale o della personalità ma di una questione prettamente biologica. A livello di percezione sociale questo passaggio dalla malattia mentale a questione biologica non è stato ancora fatto. Come possiamo aiutare le persone a superare questo gap?
Le nuove generazioni hanno molti meno preconcetti e per fortuna questo passaggio lo stanno facendo sempre di più. Per il resto, come ogni forma di diversità, è importante ricordare che le strade sono sempre tante. La conoscenza diretta di persone transessuali (usando un vecchio termine) può aiutare tantissimo. Nei nostri convegni e corsi di formazione spesso portiamo l'esperienza diretta che colpisce sempre le pance e contribuisce ad ammorbidire le menti più chiuse, più impaurite. Ancora, l'informazione scientifica esatta, ma anche la letteratura, o il cinema e le altre arti che permettono di entrare nelle storie delle persone e di conseguenza di avvicinarsi con meno pregiudizi all'intera categoria. Questo vale un po' per tutte le tematiche: dall'immigrazione alla malattia mentale.
Transessuale è un vecchio termine. Qual è il nuovo termine?
In ambito scientifico il termine transessualismo non esiste più. Tra professionisti si parla di disforia di genere. Transessuale resta nel linguaggio collettivo. Non è semplicissimo trovare nella nostra lingua un termine che non sia discriminatorio, nella lingua anglosassone si usa il termine gender variant, gender fluid. Quello che si può fare è usare questo termine in maniera corretta. Quindi la transessuale è il maschio biologico che va verso il femminile, il transessuale è la femmina biologica che va verso il maschile. (Per intenderci spesso si denomina "il trans" la prostituta per strada, cosa sbagliata perché al massimo è la trans).
Nella sua esperienza cosa cerca una persona che presenta disforia di genere da un percorso con lei?
Fondamentalmente chiedono di stare bene e per stare bene chiedono di iniziare il percorso di transizione, cioè di adeguare il corpo alla loro mente. Una volta accettati i limiti di cui parlavamo prima di tipo biologico si possono avere risultati soddisfacenti.
Ci auguriamo, con questo piccolo contributo, di aver aiutato a cambiare almeno in parte la prospettiva riguardo al tema. Il nostro lavoro non finisce qui. Stay tuned.