In Italia l’origine sociale condiziona gli studi, il lavoro e in generale la propria realizzazione. Di bassa mobilità sociale e occupazionale del Paese si è parlato nel confronto “Dinamiche di stratificazione sociale tra welfare, mercato del lavoro e famiglia. Il caso italiano in prospettiva comparata” a cura di Csis – Center for Social Inequality Studies and Famine Project.
Gli esperti, di fronte al folto pubblico, hanno parlato di un problema di giustizia sociale e di spreco di capacità. Hanno anche indicato alcune misure di contrasto.
Daniele Checchi (docente di Economia del lavoro all’Università Statale di Milano) ha proposto più diritto allo studio, nuove pratiche didattiche e l’abolizione della bocciatura. «La bocciatura – ha detto – è un evento drammatico, pedagogicamente inefficace e dagli alti costi sociali». Stefani Scherer (docente di Sociologia della famiglia all’Università di Trento) ha chiesto politiche sociali più efficaci perché «la famiglia perde la sua capacità di fungere da “cassa di compensazione” per le evenienze occupazionali e reddituali di uno dei suoi membri». Mentre Gøsta Esping-andersen (professore di Sociologia all’Università Pompeu Fabra di Barcellona) si è soffermato sull’importanza del nido di alta qualità per stimolare lo sviluppo cognitivo dei bimbi di famiglie svantaggiate. Il confronto è stato coordinato da Paolo Barbieri (professore di Sociologia economica e del lavoro all’Università di Trento).
Nell’incontro il “caso italiano” è stato letto in confronto all’Europa e agli Stati Uniti. Si è parlato di welfare, di mercato del lavoro e del ruolo della famiglia nel determinare le chance di mobilità socioeconomica individuali. Ci si è chiesti cosa fare per ridurre le diseguaglianze sociali, in quali settori e direzioni muoversi.
Daniele Checchi (che è anche membro del comitato provinciale di valutazione del sistema scolastico trentino) ha spiegato: «L’italia combina due cattivi funzionamenti. Innanzitutto scelte e risultati scolastici correlati alle origini familiari (con ragazzi incanalati nei licei o nella formazione professionale già a 14 anni). Si potrebbe correggere la situazione cambiando le pratiche didattiche a cominciare da un insegnamento per obiettivi disciplinari e per competenze. Inoltre abbiamo un mercato del lavoro che non riconosce il merito. La seconda cosa è che abbiamo il passaggio all’università a sua volta socialmente determinato. Così come gli abbandoni nel percorso universitario. La probabilità di iscriversi all’università, nonostante la riforma del 3+2, è rimasta legata all’origine sociale della famiglia. L’introduzione del numero chiuso è la risposta al taglio dei docenti: ma è una politica buona o cattiva? Una politica equa sarebbe fare delle graduatorie per origine sociale».
Per Stefani Scherer «la famiglia di origine italiana ha il braccio molto lungo. Ma è un dato strutturale e non culturale». Ha ripreso: «L’impatto della crisi sui giovani è stato minore in Italia perché molti vivono in famiglia. Il rischio però è che i giovani non formino una famiglia loro. E qui scatta anche un problema demografico e di invecchiamento della popolazione. In Italia e in Spagna poi la nascita di un figlio espone a un maggiore rischio di caduta in povertà della famiglia. Ciò significa che ci sono politiche sociali non efficaci».
Gøsta Esping-andersen, che si è soffermato sulla polarizzazione sociale in vari campi, ha concluso: «Oggi sappiamo che la democratizzazione del sistema educativo non è una formula magica. Però gli psicologi dell’età evolutiva ci dicono che i primi sei anni di vita sono fondamentali, anche per il successo scolastico. La stimolazione cognitiva precoce è decisiva. L’asilo nido di alta qualità compensa la mancanza di stimolazione nelle famiglie di origine. In Norvegia, dove le esperienze prescolari sono di qualità, i bambini di ceti bassi ai test cognitivi hanno dimostrato ottime performances».